Io e gli zombie – romanzo

Io e gli zombie – romanzo

.

.

Ora sono rimasto solo! Questo è quello che penso mentre con la mano accarezzo delicatamente il viso della mia adorata moglie Laura; la febbre l’ha consumata, forse fra poche ore si sveglierà trasformata. Sono seduto sul nostro letto, vicino a lei, le ho tenuto la mano fino all’ultimo accarezzando la sua pelle con il pollice, sperando in un miracolo che non si è compiuto, cercando di trattenerla con me il più a lungo possibile. Le ricordavo le cose che avevamo fatto insieme e quelle che dovevamo ancora fare, provavo a tenerla vigile con la mia voce, cercavo una reazione sul suo viso contratto dal dolore. Avrà avvertito che ero vicino a lei? Il suo respiro si era fatto sempre più affannoso per poi cessare del tutto e io sono scoppiato a piangere, poggiando la testa sul suo petto, sperando in un battito che non c’era più.

La camera ora è semibuia, la luce del sole mattutino filtra dalle righe delle imposte chiuse disegnando linee bianche sulla parete opposta. Vado ad aprire la finestra per fare entrare aria fresca, era chiusa da settimane nel tentativo di tenere fuori il virus: non è servito. Apro anche le imposte, ormai non ho più nulla da temere, non serve più nascondersi, non ho più niente che mi trattenga in questo mondo perduto.

Dei merli spaventati si alzano in volo dai rami del grande olivo nel giardino, uno tiene stretto qualcosa nel becco giallo, forse un verme. Sembrerebbe una normale giornata estiva, se non fosse per quel silenzio innaturale che pervade tutto, nessun rumore di traffico o del vicinato.

Nella strada privata, dove abito a Porcari, non vedo nessuno, è deserta. Le case sull’altro lato della via sono vuote, abbandonate, i vicini le hanno lasciate, se ne sono andati per rifugiarsi chissà dove… o saranno morti anche loro. L’unica macchina che si vede è la mia, parcheggiata in strada, con un leggero strato di polvere sopra.

I raggi del sole bruciano la pelle, l’aria è già rovente a quest’ora, sono settimane che questa ondata di caldo eccezionale non dà tregua.

Io invece ho dentro tutto il gelo della perdita.

Penso a Stefano, mio figlio, che è a Roma. Era partito dopo aver conseguito la laurea in Storia, era andato nella capitale in cerca di un posto di lavoro; prego perché sia riuscito a mettersi in salvo. Non l’ho più sentito da quando le comunicazioni telefoniche sono state interrotte. Nell’ultimo messaggio che abbiamo ricevuto scriveva che stava cercando di lasciare Roma e che non dovevamo preoccuparci perché sarebbe riuscito a tornare a casa in un modo o nell’altro.

Nella capitale era il caos, rivolte per il cibo erano all’ordine del giorno. L’esercito, per non far diffondere il contagio, aveva istituito un cordone sanitario e non faceva evacuare nessuno; mentre i membri del Parlamento, le alte cariche dello Stato e i loro familiari erano stati messi al sicuro nelle viscere del Gran Sasso, almeno questo era quello che circolava su internet.

Roma, la città eterna… Chissà se sopravvivrà anche a questo.

Guardo fuori, non c’è nessun movimento, questo è un bene. Laura ora ha un’aria serena, ha sofferto a lungo, le avevo dato degli antipiretici per farle calare la febbre ma non erano serviti a nulla. Devo aspettare per vedere se si trasformerà in un essere avido di carne umana o se è morta.

Non mi capacito ancora della velocità con cui è collassato il mondo, solo poche settimane fa era ancora quello che conoscevamo.

La prima volta che avevo sentito parlare di questo flagello era stato al telegiornale nazionale nel classico servizio di chiusura, dopo quello sul caldo anomalo che stava facendo registrare picchi di calura fuori norma in tutto il globo e poco prima di parlare del criceto sciatore o della cagna che allattava un gattino. Il giornalista riportava la notizia di un ceppo d’influenza, molto virulento, in una remota provincia cinese, se non ricordo male al confine con la Corea del Nord e la Russia. Il servizio terminava con il cronista che, con un sorriso ironico, commentava che era un’influenza che provocava delle morti apparenti.

Ricordo che stavamo pranzando e dissi a Laura: «Che cazzata! Che vuole dire morti apparenti? O sei morto o sei vivo, non sanno più cosa inventarsi.»

Nei giorni successivi la notizia scalò la classifica fino a essere inserita fra i servizi di apertura, anche se non si sapeva nulla di preciso, erano tutte supposizioni, ma tanto bastava. La Cina non faceva trapelare dati circa il diffondersi dell’influenza e dei decessi, anzi, aveva chiuso aeroporti e porti e addirittura rifiutava gli aiuti medici internazionali che le venivano offerti. Inoltre, aveva anche oscurato Internet, con la scusa di proteggersi dai ripetuti attacchi da parte di non meglio identificati hacker. Dalla Corea del Nord non si riusciva a sapere nulla a cose normali, figuriamoci ora. Fonti non confermate, provenienti dalla Corea del Sud, riferivano di un grande spostamento dell’esercito nordcoreano verso il confine con la Cina, che a sua volta faceva affluire le sue truppe nella stessa zona. Si parlava anche di bombardamenti con sostanze incendiarie effettuati dall’aviazione cinese su vaste aree montane entro i loro confini. La Russia si era chiusa in un riserbo totale, una cosa che non si era più vista dai tempi della guerra fredda; anche loro stavano inviando divisioni corazzate verso la stessa zona di confine, con la motivazione ufficiale di fare esercitazioni già programmate, ufficiosamente per scoraggiare un’eventuale invasione da parte dei vicini asiatici.

In seguito giunsero notizie allarmanti di focolai di questa anomala forma influenzale che si stavano verificando anche nelle città di Sapporo in Giappone, Numrug in Mongolia, Seoul in Corea del Sud, Vladivostok in Russia e a Manila nelle Filippine.

Le borse internazionali avevano cominciato a subodorare qualcosa, le sedute si erano chiuse con dei ribassi a doppia cifra, l’unico comparto azionario che ancora guadagnava era quello delle multinazionali farmaceutiche.

Io continuavo a credere che il tutto fosse un’esagerazione, come la SARS, l’aviaria o l’influenza A, pandemie che avrebbero dovuto provocare milioni di morti e che invece ne avevano causate quanto una comune malattia infettiva. L’allarme aveva solo contribuito a ingrassare le case farmaceutiche che avevano venduto miliardi di inutili vaccini.

Laura invece pensava già al peggio, voleva andare via, lasciare la città per rifugiarsi nella nostra casa in montagna a Pascoso, un piccolo paese di poche centinaia di anime adagiato fra i monti e i lussureggianti boschi di castagni della media valle Garfagnana. Come al solito aveva ragione lei, la guardo e spero che ora apra gli occhi, si alzi e dica: «Hai visto? Cosa ti avevo detto!» ma lei rimane immobile.

Per tranquillizzarla avevo aderito alla sua richiesta di fare una grossa spesa, così da avere in casa una buona scorta alimentare e di acqua.

Quel giorno al supermercato non trovai parcheggio, alla fine lasciai la macchina in divieto di sosta sopra un marciapiede a una certa distanza dal centro commerciale. Una volta dentro, il delirio: non credevo ai miei occhi, centinaia di persone spaventate si aggiravano per le corsie riempiendo il carrello con ogni cosa che gli capitava sottomano. Mi colpì molto vedere un’anziana signora vestita elegantemente in fila alla cassa, che aveva nel carrello, oltre a pochi generi alimentari, decine di scatole di cibo, croccantini e confezioni di sabbia per la lettiera dei gatti.

Laura e io riuscimmo a prendere un carrello a testa, avevamo stilato una lista di quello che ci serviva. Saltammo la frutta, la verdura, i latticini e andammo subito a prendere l’acqua, trovammo il reparto vuoto e una fila di gente che aspettava che gli inservienti integrassero le scorte. Lasciai Laura in fila e andai a prendere le lattine di fagioli, sugli scaffali c’era poca merce, buttai nel carrello tutto quello che mi capitava sottomano. Dopo andai nella corsia della pasta, una commessa prendeva da un bancale le scatole di cartone le apriva e gettava sui ripiani i pacchetti di pasta, non faceva in tempo a metterli che sparivano. Mi feci coraggio, andai al bancale e presi tre scatole, le misi nel carrello fra le proteste delle persone che aspettavano e me ne andai veloce; una donna mi inseguì offendendomi poi tornò al suo carrello, mi vergognai. Tornai da Laura, anche lì stavano scoppiando tafferugli, c’era gente che aveva preso decine di confezioni di acqua e gli altri che erano in fila protestavano. Quando toccò a noi, ci dettero solo dodici bottiglie a testa. Ci separammo di nuovo, io andai nel reparto pane e in quello della carne, lei a prendere scatolette di tonno e poi alle confetture. Mentre sgomitavo per prendere le confezioni di pane in cassetta, venni interrotto da una ragazza minuta che aveva nel carrello poca roba.

«Mi può dare della pasta per favore, è terminata.»

Mi guardava con occhi imploranti, aprii una scatola di spaghetti e le diedi metà del contenuto, le misi nel carrello anche del pane, delle scatole di fagioli e dei vassoi di salcicce.

Lei giunse le mani sotto il mento.

«Grazie, grazie, le sono davvero grata» aveva le lacrime agli occhi.

La lasciai e andai in cerca di Laura, la trovai alle casse dove c’erano delle file lunghissime.

«Non sono riuscita a trovare molto, gli scaffali erano vuoti, però ho preso tante confezioni di frutta secca, lì non c’era nessuno.»

«Non ti preoccupare» la rincuorai. «Abbiamo fatto una discreta scorta, vedrai che ci basterà. Fra poche settimane, quando si sarà calmata la situazione, il governo farà arrivare altra merce e noi torneremo a comprarla» non ci credevo neanche io.

L’attesa prolungata faceva innervosire ancora di più le persone. Ognuno aveva fatto una spesa enorme, i carrelli traboccavano da tanto che erano colmi e le cassiere impiegavano molto tempo per passare tutti i prodotti sullo scanner. Inoltre dovevamo fare la guardia ai carrelli per evitare che qualcuno si servisse direttamente dai nostri, rubando quello che non era riuscito a trovare sugli scaffali. Più il tempo passava, più la tensione aumentava. A un certo punto una famiglia si staccò dalla fila, passò dall’uscita dei senza acquisti facendo suonare il cicalino d’allarme e si diresse verso l’uscita con i carrelli pieni, senza pagare. Il vigilante cercò di fermarli ma l’uomo e la donna insistevano per andarsene; intervenne anche il direttore, ma la coppia non volle sentire ragioni e proseguì verso l’uscita.

Il giovane vigilante li raggiunse, gli si parò davanti ed estrasse la pistola puntandola contro l’uomo che aveva nel carrello, oltre alla spesa, una bimba di circa quattro anni, la quale, già spaventata per quella baraonda, alla vista dell’arma cominciò a piangere. Non sentivo cosa dicevano, il chiacchiericcio e il rumore delle casse coprivano le parole, quando la gente si rese conto di quello che stava accadendo calò il silenzio, anche le cassiere smisero di passare la merce e si girarono a guardare. Il direttore si accostò al vigilante, era in chiaro dissenso con quel gesto.

«Tommaso, non fare stupidate, abbassa la pistola» gli disse e quando gli fu vicino gli alzò il braccio che impugnava l’arma, dalla quale partì un colpo che fece esplodere una luce incassata nel soffitto, il boato risuonò a lungo nel vasto locale. Quella fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Si scatenò il panico, la gente correndo e spingendo i carrelli si diresse alle uscite ignorando le cassiere spaventate e gli inservienti che cercavano di frenare quella fuga di massa. Anche noi ce ne andammo. Passammo accanto alla coppia che aveva dato il via al tutto, l’uomo aveva aggredito il vigilante che era riverso a terra con la bocca sporca di sangue e una mano premuta sul naso, gli aveva strappato la pistola con cui ora stava tenendo sotto mira il direttore, il quale teneva le mani tremanti alzate. Raggiungemmo la macchina, mentre Laura caricava la spesa io facevo la guardia brandendo il cric, ero spaventato.

Dalle prime notizie si passò ben presto all’emergenza, i casi d’infezione si stavano velocemente estendendo in molte nazioni. Gli USA, il Canada, il Sud America, l’Europa orientale registravano centinaia di migliaia di casi. L’OMS fece chiudere lo spazio aereo mondiale e il traffico marittimo, ma ormai era tardi, il contagio non si fermava, anzi i casi continuavano a moltiplicarsi in tutto il mondo.

Notiziari, tavole rotonde, simposi e dibattiti erano in onda 24 ore su 24. Insigni studiosi mostravano planimetrie del mondo dove le zone rosse dell’infezione aumentavano e si estendevano a ogni aggiornamento e mostravano grafici che indicavano le percentuali dei contagiati e dei morti.

I cordoni sanitari messi in atto dall’ OMS non riuscivano a contenere il propagarsi del virus perché nessuno aveva ancora scoperto dove il contagio fosse iniziato, come si propagasse e soprattutto nessuno sapeva come fermarlo.

Nella comunità scientifica c’era chi sosteneva che l’agente patogeno si trasmettesse per via aerea, chi tramite la puntura di insetti, però tutti concordavano nel dire che il contatto diretto con un infetto, tramite morso o graffio, fosse una condanna sicura.

Il decorso classico della malattia consiste prima nella febbre molto alta, poi la morte, dopo c’è un intervallo di qualche ora, quindi la persona può risvegliarsi trasformata in zombie (questo è il nome che subito fu assegnato loro, perché ricordavano molto i personaggi della letteratura e del cinema horror) oppure, se è fortunata, è deceduta per sempre.

Scienziati e medici si prodigavano nel dare istruzioni su come evitare di contrarre l’infezione e nel tranquillizzare la popolazione; dicevano che tutto si sarebbe risolto, che c’era già un vaccino in fase di avanzata sperimentazione che impediva la propagazione del virus nel corpo, almeno questo era quello che dicevano a noi comuni mortali. Su internet giravano voci che in tutto il mondo le alte sfere cominciavano a essere irreperibili, in parole povere i potenti si davano alla macchia e si andavano a nascondere come topi in sicuri bunker. I militari davano consigli su come difendersi dagli zombie, i cittadini erano invitati a non intraprendere nessuna iniziativa e, se li avessero incontrati, avrebbero dovuto allontanarsi e avvertire l’esercito che aveva istituito dei reparti di pronto intervento. Se proprio non ci fossero state alternative, i non morti andavano colpiti alla testa o bruciati, il calore della combustione avrebbe distrutto quello che rimaneva del cervello.

Furono proibiti gli assembramenti. I luoghi di culto erano stati chiusi e la polizia allontanava le persone che si radunavano fuori delle chiese, sinagoghe, moschee o altro per pregare.

Con il passare dei giorni i notiziari attuarono una tardiva censura, per non contribuire ad aumentare il panico fra i cittadini non venivano più trasmessi i video dei disordini che accadevano nel mondo e in Italia. Tutto inutile, i social network, come Facebook, Twitter, YouTube, Instagram erano pieni di richieste d’aiuto, messaggi d’addio e foto orribili. I filmati caricati in rete sembravano dei veri e propri film dell’orrore, scene raccapriccianti riprese con i cellulari di persone sbranate vive; di reparti dell’esercito sopraffatti da migliaia di morti viventi; di polizia che sparava sulla folla davanti ai centri commerciali; di ospedali strapieni di gente moribonda e di centinaia di migliaia di persone che abbandonavano, in un immane esodo, le grandi metropoli mondiali. Col passare dei giorni, i social furono aggiornati sempre meno di frequente, fino a rimanere del tutto inutilizzati.

Per evitare il contagio l’Italia aveva chiuso i valichi e i tunnel che la collegavano con l’Europa. Le città italiane che avevano un porto commerciale o un aeroporto internazionale erano tenute sotto stretto controllo sanitario e fu proprio in queste città che si registrarono i primi casi, subito eliminati per evitare il diffondersi del virus. Per qualche settimana il governo si era cullato nell’idea di riuscire a bloccarlo, tutto inutile.

Anche la Gran Bretagna, che aveva confidato nel suo isolamento dal continente come garanzia di sicurezza, era stata una delle prime nazioni europee ad avere un elevato numero di casi. Uno degli ultimi servizi giornalistici che avevo visto mostrava una Londra in fiamme e le navi da guerra francesi che, per impedire ai profughi potenzialmente infetti di sbarcare sulle loro coste, cannoneggiavano affondando tutte le navi inglesi, sia i traghetti che le piccole barche a vela.

Parlai con i vicini, con gli amici, con i parenti, nessuno aveva un’idea precisa sul da farsi: chi pensava di chiudersi in casa, chi di partire per la montagna o per altri posti isolati. I più ottimisti continuavano a dire che non ci sarebbe stato nessun grave problema e che gli scienziati avrebbero trovato una cura; io ero uno di quelli.

Quando alla fine accettai di partire per Pascoso la situazione a Porcari era già grave, in pochi giorni c’erano stati centinaia di decessi, avvistamenti e aggressioni da parte di zombie, spesso si udivano colpi di fucile e non era periodo di caccia: il virus era arrivato anche da noi.

Venivo da un periodo di ferie, chiamai al lavoro per dire che non sarei rientrato; nell’attesa che dall’altra parte alzassero la cornetta elaboravo delle scuse plausibili, ma non ce ne fu bisogno, non rispose nessuno. Caricai il necessario in macchina, pasta, scatolame, medicine, (non presi da bere, vicino casa c’è una fonte di ottima acqua) e partimmo.

Il traffico era impazzito, c’erano code chilometriche e incidenti. Percorsi strade alternative ma, purtroppo, non fui l’unico ad averci pensato. Procedevo a passo d’uomo, passando davanti alle case vedevo molte famiglie che stavano caricando la macchina, anche loro in fuga.

Quando arrivammo a Ponte a Moriano trovammo il traffico completamente bloccato, in molti avevano avuto la mia stessa idea: abbandonare la città per rifugiarsi in montagna, come fecero gli sfollati della città di Lucca durante i bombardamenti alleati nella Seconda Guerra mondiale.

La Polizia Municipale stava facendo il possibile cercando di ristabilire la circolazione; i mezzi di pronto soccorso erano anch’essi bloccati, molta gente abbandonava le macchine a bordo strada e proseguiva a piedi, trainando grosse valige o con zaini sulle spalle. Scesi dalla macchina per farmi un’idea della situazione e vidi una giovane mamma che spingeva una carrozzina blu biposto, all’interno erano seduti due gemelli di pochi mesi, uno dormiva e l’altro aveva in bocca un ciuccio ed era intento a studiarsi le manine paffute, indossavano delle tutine celesti. La mamma era una giovane ragazza di statura bassa, indossava pantaloni jeans e una camicetta rosa, sulle spalle aveva un grosso zaino da escursionista marrone. Per un attimo il nostro sguardo s’incrociò, aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto, non dissi nulla, neanche lei. Tornai alla macchina e, per evitare di rimanere imbottigliato in mezzo a tutta quella gente, feci inversione di marcia. Le auto erano incolonnate su entrambe le carreggiate, percorsi un pezzo di strada con gli pneumatici del lato passeggero sul marciapiede e i pedoni che incontravo mi dimostravano la loro rabbia battendo con le mani sulla carrozzeria. Laura era spaventata, chiuse gli occhi tenendosi alla maniglia della portiera.

Il ritorno verso casa fu tragico, cercavo di consolare Laura che era in lacrime, sperava di andare a Pascoso. La nostra casa è fuori dal paese e la proprietà è recintata con pali di legno e una robusta rete; sul retro e sulla sinistra, a una certa distanza, c’è un fitto bosco di castagni, utili per fornire la legna da bruciare. Nell’ampio giardino ci sono numerose piante da frutto che ho piantato nel corso degli anni e ora avrebbero potuto integrare le nostre scorte di cibo, in attesa che la situazione si fosse normalizzata. Laura confidava in quell’isolamento come fattore di protezione, gli assicurai che ce la saremmo cavata ugualmente; sbagliai per l’ennesima volta.

Sulla via del ritorno provai a passare dal supermercato per incrementare la scorta alimentare, la situazione che trovammo era tragica.

Le forze dell’ordine presidiavano il centro commerciale, avevano sbarrato gli accessi e facevano passare poche persone alla volta, cercavano di dare un minimo a tutti. La folla era impazzita, tafferugli scoppiavano fra la gente per essere fra i primi a entrare e ricevere i viveri. La polizia, nel tentativo di disperdere la ressa, cominciò a lanciare i lacrimogeni, ma ottenne l’effetto contrario: invece di allontanarsi la gente caricò i poliziotti che cominciarono a sparare per difendersi, andammo via prima di restare coinvolti. Oltre all’infezione era arrivata anche la paura e la disperazione.

Una volta a casa scaricammo la macchina e ci barricammo dentro, in quel momento avevo più paura dei vivi che degli zombie. Dalla finestra del primo piano, sul retro, riuscivo a vedere la strada statale, c’era molto traffico, le autoambulanze, le autopompe dei pompieri, i mezzi dell’esercito e della polizia facevano lo slalom fra le macchine.

I giorni passavano e il via vai dei mezzi di soccorso e delle auto si fece sempre più rado, fino a cessare del tutto.

Ogni giorno cercavamo di contattare Stefano senza risultato, la rete telefonica era sovraccarica… poi saltò del tutto. Dopo qualche giorno andò via anche l’energia elettrica, eravamo al buio.

Dalle finestre vedevamo dense colonne di fumo nero che si levavano da varie zone, immaginavamo che fossero incendi di abitazioni o siti industriali; durarono giorni, non c’era più nessuno che si prodigava per spegnerli.

Stavamo sempre abbracciati, sfogliavamo gli album delle nostre fotografie, rivivevamo tutte le foto a una a una, facevamo l’amore tutte le volte come se dovesse essere l’ultima.

Poi a Laura salì la febbre, le era venuta anche una brutta tosse, speravo che fosse un banalissimo raffreddore, invece nel giro di poche ore la temperatura aumentò, la portai sul nostro letto, le stavo vicino tenendole la mano. La colonnina del termometro si fermò perché arrivata al limite, le rinfrescai la fronte con pezze bagnate, non servì, avevo bisogno di ghiaccio, ma senza corrente era impossibile farlo. Stava soffrendo e io non potevo fare nulla, presi la ciotola di plastica contenente l’acqua e dalla rabbia la scaraventai contro l’armadio. Tenevo la sua mano stretta nella mia, la rassicuravo dicendole che non era nulla di grave ma sapeva anche lei che non era così e ora non c’è più.

La nostra è una piccola casa, sopra la zona notte, sotto il salotto, la sala da pranzo e un angolo cucina. Scendo al piano terra, devo andare via, non posso restare qui, questa è la nostra casa, il nostro nido d’amore, troppi ricordi sono legati a queste mura. Prendo le ultime lattine di cibo in scatola, due bottigliette di acqua, eravamo agli sgoccioli, tempo alcuni giorni e sarei comunque dovuto uscire a cercare provviste. Prendo anche un machete, ricordo di una vacanza a Cuba, un coltello modello Rambo e un binocolo comprati durante una gita a San Marino, una torcia a led con carica manuale, una piccola accetta, accendini a gas e pochi indumenti di ricambio, non posso caricarmi troppo se voglio viaggiare veloce.

Sistemo tutto nello zaino che usava Stefano alle medie e in attesa di uscire guardo le fotografie alle pareti, ognuna di esse ha fermato nel tempo un momento che per noi era importante, abbiamo sempre vissuto l’uno per l’altra.

È già passata un’ora da quando è morta, apro il più silenziosamente possibile l’avvolgibile della portafinestra che dà sul giardino di dietro, devo prendere la mountain bike ma voglio evitare di attirare l’attenzione di qualche zombie o vivente che sia; la preparo e controllo le gomme. A lungo ho pensato se prendere l’auto, la moto o la bici, ma alla fine ho scelto quest’ultima perché sicuramente non rimarrò appiedato per mancanza di benzina e, cosa da non sottovalutare, è silenziosa.

Torno in cucina, prendo un coltello da carne, rompo l’impugnatura in plastica, poi smonto il bastone di legno del rastrello che ho preso in giardino, ci faccio un intaglio in cima e ci fisso la lama con abbondante nastro adesivo così da avere una rudimentale lancia; se devo avere uno scontro con uno zombie, meglio farlo da una distanza di sicurezza.

Mentre guardo l’arma, sorrido involontariamente, ripenso a tutti i film che ho visto sugli zombie: quelli di Romero, Resident Evil, The Walking Dead e tanti altri; i protagonisti avevano a disposizione arsenali di armi di tutto rispetto, fucili, pistole, mitra, munizioni infinite, io ho solo questa.

Un’altra mezz’ora è passata, nello zaino metto anche il cellulare e un caricatore a pannello solare. Sul telefonino ho memorizzato molte fotografie e brani degli anni ’80, la musica di quando ci siamo conosciuti; strano a dirsi ma noi non abbiamo una nostra canzone speciale, la nostra colonna sonora abbraccia un intero decennio.

Salgo al primo piano dove ci sono le due camere, la nostra e quella di Stefano, il bagno e una cameretta adibita a studio. Sulla parete delle scale sono appesi molti piatti turistici che abbiamo acquistato durante i nostri viaggi nelle città italiane e nel mondo: ogni volta che visitavamo una città, il nostro primo pensiero era comprarne uno come souvenir. Dopo tanti anni ricoprono l’intera parete: c’è quello di Parigi, di Cuba, delle Maldive, di Roma, di Venezia e tanti altri, un mare di ricordi mi travolge, le lacrime salgono agli occhi e scendono lungo le guance.

Entro in camera, mi siedo sul letto vicino a lei e la guardo. Laura ha la pelle pallida, quasi grigia, comincia ad avere le prime contrazioni alle mani, le sento la fronte, prima scottava, ora è mortalmente fredda. Sfodero il coltello, glielo poggio sulla fronte, devo avere coraggio, un colpo deciso… Non ce la faccio. Mi alzo, gli occhi ancora pieni di lacrime, le do un bacio, le chiedo scusa, prendo un cane di peluche, il suo favorito, e glielo metto sotto il braccio, esco dalla camera e lascio la porta aperta.

Ripenso a quello che dicevano i notiziari, nessuno sapeva dire con certezza come e dove fosse partito il focolaio dell’infezione, il cosiddetto “paziente zero”. Le superpotenze si incolpavano a vicenda; i fanatici della teoria del complotto davano la colpa alle case farmaceutiche che avrebbero rilasciato un virus influenzale che poi è mutato; i pacifisti ai militari e alle loro armi batteriologiche, forse una era fuoriuscita durante un esperimento; gli ambientalisti all’uomo stesso che per anni ha sfruttato e violentato la Madre Terra e ora lei si sta liberando dei parassiti. Poi erano saltati fuori gli alieni; le scie chimiche; i Maya; la furia Divina e altre mille ipotesi, tutte valide, tutte assurde. Devo dire che dobbiamo ringraziare i potenti, nel momento più critico non hanno dato il via a un olocausto nucleare, almeno quello ce lo siamo risparmiato.

Sono le prime ore del pomeriggio, levo la porta che dà sul giardino posteriore e quella che dà sul davanti, in questo modo lei potrà andare dove vorrà. Nel nostro giardino le rose sono sbocciate, erano la passione di Laura, le accudiva amorevolmente e con i fiori creava delle splendide composizioni; ora non potrà mai più sentire il loro delicato profumo. Ricordo che alla televisione dicevano che, di solito, gli zombie continuano a frequentare i luoghi che hanno frequentato da vivi, non si spiegavano il perché, forse una parodia della vita che conducevano prima, una routine quotidiana che hanno impresso nella mente e che ripetono da morti.

Scrivo una lettera su un foglio a righe.

“Stefano, perdonami se puoi, mi dispiace ma non sono riuscito a proteggere la mamma, ho fallito. Vado via, non posso rimanere qui, andrò a Lucca, spero che un giorno riusciremo a incontrarci di nuovo. Se leggi questa lettera, controlla se la mamma è ancora in casa, ti prego di non ucciderla. Ti voglio bene.”

La metto in un porta documenti di plastica trasparente per proteggerla dalla pioggia, con del nastro adesivo la fisso al cancello e sopra a grandi lettere scrivo: “Per Stefano”. Quando tornerà, la leggerà perché sono sicuro che riuscirà a tornare.

Indosso un giubbotto tipo militare, lo usavo quando andavo a cercare funghi, metto lo zaino sulle spalle, sistemo il machete e il fodero del coltello alla vita, in modo che non mi diano fastidio nel pedalare. Vicino alla porta c’è una gigantografia che ci ritrae nel giorno del nostro matrimonio, mi fermo qualche minuto, perso nei ricordi. In un attimo rivivo quel giorno come se fosse oggi: era una fredda giornata piovosa di gennaio, ma noi non lo avvertivamo, il nostro amore ci scaldava; lei era

bellissima vestita di bianco, ancor prima di sposarla sapevo di non meritarmela.

Prendo la bici ed esco, in strada non c’è nessuno, le finestre dei vicini sono chiuse. Il sole picchia duro, sono già sudato, ma il giubbotto lo tengo lo stesso: in caso d’incontri troppo ravvicinati voglio avere meno pelle scoperta possibile.

Non so se chiudere il cancello o meno, infine decido di lasciarlo aperto, confido che nessuno venga a farle del male, inforco la bici e parto.

 

 

 

 

 

In viaggio

 

Potrei passare dal centro di Porcari e rivedere per un’ultima volta i luoghi che abbiamo frequentato: piazza Uda, dove il Comune nelle sere d’estate organizzava il teatro all’aperto, ci venivamo spesso, ci piacevano le commedie in vernacolo lucchese; via Roma con i suoi negozi che, in occasioni particolari, veniva chiusa al traffico per allestire un mercato dove noi amavamo aggirarci fra le bancarelle tenendoci per mano, mangiando un gelato d’estate o in autunno le castagne che gli alpini cuocevano all’aperto.

Ma la situazione ora è cambiata, non vorrei trovarmi in mezzo a una folla di zombie, da soli sono pericolosi, in molti sono letali, la loro forza è il numero. Penso di andare a Lucca che dista una quindicina di chilometri, di solito impiegavo una trentina di minuti per arrivarci, ma ora devo fare molta più attenzione le strade non sono più come una volta, prima era il traffico a renderle pericolose, adesso ci sono loro.

Passo da vie secondarie, i pochi zombie che vedo li supero agevolmente, loro procedono veloci, ma non corrono e non riescono a starmi dietro. Il fruscio delle gomme sull’asfalto e il rumore del vento nelle orecchie sono la mia unica compagnia. Ai lati della strada scorrono capannoni industriali, case, ville, tutto abbandonato. Mentre procedo getto lo sguardo nei giardini invasi da erbacce e alle finestre nella speranza di vedere delle persone vive. Ci sarà qualcuno dentro quelle abitazioni rintanato in attesa di un miglioramento della situazione o saranno tutte abbandonate?

Proseguo fino ad arrivare alla cartiera dove ho lavorato per tanti anni, mi fermo un attimo, il silenzio avvolge i due grandi capannoni, non si sente più il rumore per me familiare dei macchinari, nel piazzale non vedo nessuno, rido nervosamente: è evidente che neanche uno zombie si sente legato a questo posto.

Passo sopra al cavalcavia autostradale della Firenze-mare, freno, sotto di me una moltitudine di zombie si aggira fra i veicoli incolonnati, la corsia più intasata è quella che va in direzione della Versilia. Non ne ho mai visti così tanti, poggio la mano sulla rete di protezione che si flette facendo un lieve rumore, ma tanto basta perché uno avverta la mia presenza, alza la testa e comincia a ringhiare; gli altri si voltano, mi vedono, spingono per radunarsi sotto di me, alzano le braccia nel vano tentativo di raggiungermi, non me ne preoccupo, quassù sono al sicuro. La puzza è terribile ed è pieno di mosche, tantissime mosche, ora non gli manca certo il materiale dove deporre le larve. Mi volto, con lo sguardo abbraccio per un’ultima volta la collina di Porcari, con in cima la sua casetta bianca, poco più sotto la chiesa, anche lei con la bella facciata chiara, e il campanile che si staglia alto: sono i simboli del paese, che da lontano ti danno il bentornato a casa.

Saluto gli zombie con la mano e riprendo a pedalare.

La strada più avanti è bloccata, c’è stato un incidente, dei furgoni sono ribaltati in mezzo alla strada e delle macchine ci sono andate a sbattere contro.

Mi avvicino, da dietro un furgone esce uno zombie, mi fermo, sono sorpreso, non mi aspettavo la sua presenza. Viene verso di me, un allarme interno risuona nella mia mente avvertendomi del pericolo, continua ad avvicinarsi, non stacca i suoi occhi dai miei e io resto immobile come uno stupido. L’allarme si fa sempre più forte, ho i capelli della nuca ritti, rientro in me, è troppo vicino, non avrei tempo per allontanarmi. Con mani tremanti prendo la mia imitazione di lancia, l’avevo sistemata sulla canna della bici in maniera da non intralciarmi, non ho tempo di scendere, allora carico come avrebbe fatto un antico cavaliere medioevale. Pedalo, prendo velocità e lo colpisco alla gola, cade all’indietro e per poco non casco pure io per il contraccolpo. Scendo, sfilo il machete dalla custodia e mi avvicino, non è finito, cerca di rialzarsi, non ha sentito nulla; la lama si sfila e la lancia cade a terra, devo cercare di recuperarla. Mi avvicino brandendo il machete in alto, si gira su un fianco e cerca di afferrarmi con la mano, d’istinto lo colpisco, gli spacco la testa e lui si blocca senza emettere un gemito. Un odore fetido sale dal materiale putrescente che gli fuoriesce dalla ferita.

«Cristo, dentro siete proprio marci!»

Piegato in due vomito quel poco che avevo nello stomaco, è la prima volta che uccido, anche se a voler essere pignoli era già morto.

Crollo a sedere sull’asfalto, detergo il sudore dalla fronte, apro lo zaino, bevo un po’ di acqua per sciacquarmi la bocca e la sputo. Studio la mia vittima, è la prima volta che ne vedo uno così da vicino. Indossa un paio di scarpe da tennis di marca, pantaloni lunghi di cotone chiari, una polo bianca, entrambi sporchi di sangue, i pantaloni hanno una chiazza scura sul davanti, al polso un bel orologio e al collo una catena d’oro da cui pende una croce. Una persona normalissima, se non fosse che ha la pelle di un colore che si avvicina al grigio chiaro e le labbra che si sono ritirate scoprendo i denti in un orrendo ghigno. Ha dei profondi morsi su un braccio, orlati di nero, da cui cola un siero denso rosso scuro e la testa aperta. Un altro conato di vomito sale alla gola, cerco di vomitare silenziosamente, non vorrei attirare altri falsi morti. Penso a Laura, ormai anche lei sarà in questo stato e tutto per colpa mia. Recupero la lancia, la lama ha retto bene l’urto, la rimetto alla canna della bici.

Vado a controllare le macchine, in mano stringo il machete. Oltrepasso i furgoni, coinvolta nell’incidente c’è anche un’autoambulanza della croce verde, le porte posteriori sono aperte, all’interno sulla barella c’è una sacca da cadavere nera che si muove, dentro ci deve essere un morto troppo vispo. Da uno strappo sporge una mano che artiglia l’aria convulsamente, che schifo passare l’eternità chiuso lì dentro.

Pongo fine alla sua prigionia, individuo dove possa essere la testa, calo più volte il machete, i movimenti cessano: questa volta è stato più facile. Entro, frugo nei cassetti in cerca di medicine, le poche che avevo le avevo date a Laura per cercare di farle calare la febbre che la divorava, qualcuno però mi ha preceduto, non trovo nulla di utile. Sto per uscire, quando mi si para davanti una ragazza che indossa la giacca arancione della divisa dei volontari della croce verde, sotto ha solo gli slip.

Doveva essere bella, ora ha la coscia, il polpaccio e il viso deturpato da graffi, la testa inclinata, uno sguardo feroce, la bocca spalancata da cui emette un lieve suono gutturale, cerca di afferrarmi, ci separano solo pochi metri. Indietreggio, apro il portellone laterale, scendo di corsa, la ragazza non demorde, inforco la bicicletta e parto. Ben presto lascio alle spalle il pericolo, non voglio impegnarmi in uno scontro se non è necessario, non si sa mai.

La prossima volta devo stare più attento, mi comporto ancora come se tutto non fosse cambiato, avrei dovuto controllare bene che non ci fossero pericoli e poi avvicinarmi, sono proprio uno stupido.

Sono in via del Rogio, nel rio a lato della strada ci sono delle anatre che nuotano e s’immergono in cerca di cibo, degli aironi cinerini, appollaiati su una sola zampa, sono in paziente attesa che qualche preda passi a tiro del loro lungo becco. C’è silenzio, non sono abituato a questo silenzio, prima in qualunque posto ti trovassi avevi sempre la percezione di un rumore di sottofondo prodotto dall’attività umana, un trattore nei campi, il rumore di una motosega lontana, il rombo prodotto da veicoli su una strada trafficata o il suono di un aereo: ora c’è solo il rumore della natura. Costeggio campi di granturco sulle piante le giovani pannocchie stanno crescendo e i girasoli, con il grande fiore giallo reclinato verso il basso, stanno maturando al sole, ormai sono destinati a diventare cibo per topi o per qualche sopravvissuto. Per sicurezza procedo mantenendomi al centro della carreggiata, non vorrei che all’improvviso sbucasse fuori uno zombie dalle sterpaglie. Faccio una curva e mi fermo, la strada è ingombra di materiale vario.

La parte anteriore della fusoliera di un aereo, sporca di terra e annerita dal fuoco, ha scavato una profonda ferita in un campo. Sulla sinistra, dall’altra parte del fosso molto in là nei campi, c’è il troncone della coda e le ali; un motore è finito in un canneto che costeggia il rio, mentre i seggiolini dell’aereo, le valigie, i giubbotti di salvataggio, le maschere d’ossigeno e i vestiti ingombrano la strada. Ci sono innumerevoli corpi straziati in avanzato stato di putrefazione sparsi tutto intorno; una giovane volpe che stava divorando un cadavere mi studia infastidita, poi riprende il suo pasto. Cosa ci faceva un aereo di linea da queste parti? Cercava di atterrare sulla piccola pista dell’aeroporto di Tassignano? Aveva finito il carburante? Forse non aveva scelta, l’aeroporto di Pisa sarà stato congestionato o chiuso, il pilota avrà tentato il tutto per tutto cercando qui la salvezza o forse era decollato da poco da Pisa avrà avuto dei problemi ed è precipitato. Tutte le congetture sono plausibili. Il muso dell’aereo ha sfondato la recinzione dell’autostrada, è meglio che mi allontani prima di destare gli appetiti di qualcuno. Le cicale del bosco smettono di frinire, una gazza ladra prende il volo da un albero sbattendo le larghe ali dall’elegante piumaggio bianco e nero, anche la volpe alza la testa di scatto, aspetta qualche secondo, poi scappa con la coda bassa. Sta arrivando qualcuno, aspetto di vederlo nella speranza che sia una persona che respiri. Vana speranza, dagli alberi spuntano quattro zombie, sono lontani e non rappresentano un pericolo immediato, però me ne vado, tanto qui non ho nulla da fare.

Sto attraversando una zona di villette, un grosso gatto rosso è acciambellato sugli scalini davanti a una porta aperta. Passo davanti a un piccolo discount, nel parcheggio ci sono carrelli rovesciati, decido di entrare per vedere se trovo qualcosa di commestibile; anche in questo caso mi va male, appena varco le porte a vetri sfondate capisco subito che non troverò nulla, il negozio è stato saccheggiato, sono rimasti dei detersivi, attrezzatura da mare, hanno rubato perfino i registratori di cassa, cosa se ne faranno mai. Esco demoralizzato e riparto.

Più mi avvicino alla città, più loro sono numerosi, così spesso devo cambiare itinerario perdendo tempo prezioso. Mi imbatto nell’ennesimo incidente, le macchine si sono accartocciate l’una sull’altra, occupano tutta la sede stradale. Che cosa guardavano i guidatori per essere così disattenti?

Aggirare questo blocco comporterebbe una lunga deviazione e non ho tempo da perdere, le ore passano, non voglio ritrovarmi all’aperto di notte, con l’oscurità loro sono molto più pericolosi, almeno è quello che dicevano in televisione e io non ci tengo a verificare se sia vero o meno.

Devo rischiare, prima di avvicinarmi ho osservato da lontano il posto e non ho notato pericoli, spero di aver visto bene.

Scendo dalla bici, con la mano la tengo per il manubrio, avanzo piano, pronto a scappare se ce ne fosse bisogno, devo per forza passare da qui, devo oltrepassare questo intrigo di lamiere che ho davanti per ritrovare la strada libera.

Questa volta voglio andare sul sicuro, appoggio la bici a un’automobile e mi inginocchio sull’asfalto per vedere che sotto le auto non ci siano minacce: tutto ok. Qua e là ci sono dei corpi in terra, zaini, borse, scatoloni e altro materiale; c’è anche una palla sotto una macchina lontana. Mi rialzo, prendo la lancia e proseguo, con tutti i sensi all’erta.

In una vettura, un piccolo SUV argento, c’è ancora il conducente o almeno gran parte di lui: nell’urto ha sfondato il parabrezza con la testa, decapitandosi, morte veloce e credo indolore. Ho un dubbio, ricontrollo sotto la macchina, esatto, quello che da lontano avevo scambiato per una palla non lo era, brutto spettacolo. Quello che però mi fa rizzare i capelli è ciò che vedo sul sedile posteriore di quel SUV, una volta rimessomi in piedi: su un seggiolino, ancora assicurato con le cinture, c’è un bimbo, avrà tre anni, forse meno, ha un braccio e una gamba dilaniati, l’altro braccio invece è proteso verso di me; dalla bocca gli cola del liquido ed emette dei versi poco rassicuranti. È vestito con una salopette verde pisello, ai piedi delle scarpe da ginnastica rosse e bianche con ai lati due smile gialli sorridenti. Sul tappetino, fra i sedili, ci sono vari giocattoli che dovevano allietare il suo viaggio. Il finestrino della portiera posteriore è abbassato per metà, il suo aggressore si deve essere proteso da qui. Dal seggiolino parte una scia di sangue scuro che prosegue sulla tappezzeria del sedile e finisce sui bordi del finestrino, una parte è colata anche lungo la carrozzeria terminando sull’asfalto, quando il bimbo è morto dissanguato, il suo aggressore ha perso interesse e se n’è andato.

«Povero piccolo» parlo da solo, «chissà quanto hai urlato mentre lo zombie ti dilaniava. Perché nessuno ti ha salvato? Eppure dopo l’incidente avrai pianto.»

Non so che fare, lasciarlo così in queste condizioni è brutto, sembra una crudeltà, d’altra parte anche ammazzarlo non è bello.

Apro il portabagagli, dentro ci sono attrezzature da campeggio e valige, niente viveri. L’uomo, probabilmente, aveva pensato che isolandosi, avrebbe potuto sperare nella salvezza, ma quello che non capisco è perché stesse andando in direzione Lucca. Giro attorno alla vettura, il bimbo ruota la testa per controllarmi, non so cosa fare, alla fine opto per quella che penso sia la cosa più misericordiosa: «Spiacente piccolo mio, se ti lascio qui non penso che qualcuno ti liberi, quelli della tua specie non sono tipi che si curano del prossimo.»

Apro la portiera, punto la lancia e miro fra gli occhi che un tempo hanno guardato la mamma con amore, un colpo netto e finisce di muoversi, pulisco la lama sui sedili dell’auto. Controllo le altre macchine per cercare qualcosa da mangiare ma ci deve essere già passato qualcuno perché trovo solo una bottiglietta d’acqua. Vado avanti, sto lontano dai corpi in terra, uno ha il cranio sfondato è stato investito e ha quello che rimane della testa incastrata nel radiatore della macchina, una donna ha un cacciavite infilato nell’occhio destro, altri due hanno anch’essi la testa fracassata: c’è un tanfo che dà il voltastomaco. Uno zaino è vicino al corpo di uno zombie, gli hanno messo la testa fra lo sportello dell’auto e la carrozzeria e gliel’hanno spappolata, dentro ci sono solo vestiti, niente di commestibile. In una borsa trovo solo carta igienica: «Ma tu guarda, ognuno ha le sue priorità nella vita!»

Prendo un rotolo e lo metto nel mio zaino, può sempre tornare utile.

Passato il blocco, riprendo la mia strada.

 

 

Vicino alla meta

 

Continuando a evitare i punti pericolosi, arrivo alla periferia di Lucca. Sono in via di Tiglio a San Filippo, nella zona industriale, i magazzini sono stati distrutti dalle fiamme, una camionetta dei pompieri giace ribaltata su un fianco. Scendo e mi carico la bicicletta sulla spalla, in terra ci sono pezzi di vetro e altre macerie. Vicino ai ruderi dei muri giacciono parecchi corpi carbonizzati, mi affretto a passare, c’è ancora un puzzo acre nell’aria. Sul lato opposto della strada c’è un distributore di benzina, anche quello è andato a fuoco, nell’incendio sono state coinvolte decine di macchine che ora sono solo dei gusci vuoti arrugginiti. Dove dovevano esserci le pompe di benzina c’è una grossa voragine nel terreno, l’esplosione deve essere stata tremenda. Sento dei rumori provenire dall’enorme buca e mi avvicino, sempre tenendo la bicicletta sollevata: in fondo al cratere ci sono degli zombie, stanno cercando di uscire, ma non riescono ad arrampicarsi lungo le pareti di terra.

Appena mi è possibile torno in sella e proseguo. Più avanti la strada si restringe e io procedo molto piano, sono in una zona pericolosa. Tutti i negozi sono stati saccheggiati, anche le case hanno le porte sfondate, in terra c’è di tutto, sembra che sia passata una tromba d’aria, quello che non sono riusciti a portare via è stato abbandonato. Proseguo stando in piedi sui pedali, così da avere più campo visivo.

Ci sono dei cadaveri, alcuni corvi si alzano in volo dai corpi gonfi gracchiando, non riesco a capire dal loro stato se erano zombie o persone rimaste vittime dell’isteria collettiva. Passo accanto a una macchina della polizia incendiata, si è schiantata contro delle auto in coda, all’interno c’è un cadavere carbonizzato, mentre sul cofano c’è la metà superiore di un corpo, anch’esso bruciato; lo sventurato è stato schiacciato e tranciato in due nell’urto. Pedalo piano, devo scansare gli oggetti in terra e in più sono scosso da quello che vedo, non oso pensare come sia la situazione in una grande città come Milano, Roma, Napoli o in una metropoli come New York, Pechino, Mumbai o Tokyo.

Il passaggio a livello all’incrocio con via Ingrillini è chiuso, un treno è fermo sulle rotaie, le porte dei vagoni sono aperte. Un groviglio di macchine e qualche zombie vagante mi dissuade dal procedere. Cambio itinerario, passerò da via Felino Sandei così da ritrovarmi sulla via Romana, il brutto è che devo passare in una strada costeggiata da alti palazzi, non è il massimo della sicurezza, ma non posso evitarlo. Non faccio in tempo a imboccarla che ne scorgo tre, anche loro mi hanno visto e si dirigono verso di me. In tutta fretta faccio inversione di marcia fino a piazza D’Acquisto e prendo via Don Lazzeri, dove la situazione è tranquilla, devo solo, si fa per dire, scansare i cadaveri e tutto il materiale che anche qui è stato abbandonato sulla strada. Sono a disagio, qualsiasi rumore mi fa trasalire, il vento pomeridiano fa sbattere i cancelli e i vetri delle finestre. Da quando sono arrivato in periferia tutto questo abbandono mi fa capire la portata di quello che è accaduto, un’intera popolazione spazzata via.

In via Romana il passaggio a livello è aperto, ci sono solo alcune macchine abbandonate, anche qui la strada è stretta, costeggiata da case. Ci sono due zombie in strada, procedono barcollando guardandosi attorno in cerca di prede, meno male che sono molto lontani fra loro. Prendo velocità puntando sul primo, quando sente che sto arrivando si gira, riesco a evitarlo. Il secondo è ancora lontano in mezzo alla carreggiata, ma ora si è accorto del mio arrivo e viene verso di me. Rallento e mi sposto sulla destra rasentando il marciapiede, quello segue le mie mosse e si muove per venirmi incontro. Mi giro, il primo che ho scartato è ancora lontano. Ecco, ora lo zombie che ho di fronte è proprio dove volevo che fosse. Spingo sui pedali e gli vado incontro, lui alza le braccia pregustando il pasto. Chissà se gli è venuta l’acquolina in bocca? Quando gli sono vicino mi butto a sinistra e lo spiazzo, non si aspettava questa mossa; passo fuori dalla sua portata, lasciandolo a dieta.

Il giorno sta per finire, devo trovare un posto sicuro per la notte, sulla circonvallazione di Lucca ci sono tanti palazzi, ma le case sono pericolose, meglio trovarne uno adibito a uffici: «Lo voglio proprio vedere uno zombie stacanovista!»

Arrivo sul viale Castracani, passando da via di Tiglio, scendo e procedo a piedi sul marciapiede costeggiando il muro, anche qui i negozi sono stati saccheggiati, pure quello di mangimi per animali. Fogli di giornale e buste di plastica bianche rotolano per la strada sospinti dal vento, in lontananza ci sono degli zombie che vagano. Il sole si sta avviando al tramonto sfrutto le ombre che si allungano per non farmi vedere ma rinuncio a proseguire, più avanti ce ne sono troppi.

Devo sbrigarmi a trovare un ricovero per la notte, sono indeciso su dove andare: a destra vado verso il vecchio ospedale, a sinistra verso la stazione. L’unico palazzo che ricordo di sicuro adibito a uffici è proprio accanto allo stadio, vicino all’ospedale. Decido per quello e che Dio mi assista.

Arrivo all’incrocio con via dello Stadio, mi fermo all’angolo della strada e sporgo la testa.

Merda! La via è affollata da zombie che si muovono a gruppi o da soli. Ne sta arrivando uno, indossa un giubbotto che lo identifica come ausiliare del traffico, mi ritraggo prima che mi veda, potrei allontanarmi ma non posso nascondermi in eterno, il tempo scorre implacabile. Svolta l’angolo, mi vede, alza le braccia per prendermi, ha metà faccia divorata fino all’orecchio, dal viso gli pende un pezzo di guancia che lascia scoperti i denti del lato destro, un gorgoglio gli esce dalla gola, un liquido viscoso gli cola sul torace, al collo ha ancora la macchinetta per le multe. Non gli do il tempo di afferrarmi; il machete cala dall’alto con forza e gli apro la testa in due, con una certa soddisfazione, direi; lo sorreggo e lo depongo a terra in modo che non faccia rumore cadendo. Questa volta è stato più facile eliminarlo.

Controllo la via per vedere se ho attirato l’attenzione: niente, tutto tranquillo. Attraverso l’incrocio, con una mano tengo la bici, l’altra è abbandonata lungo il fianco, trascino una gamba, sono lontani e muovendomi come loro li potrei ingannare.

Il tempo si dilata, il sudore cola lungo la fronte in grosse gocce e scende lungo il collo. Il trucco funziona, sono dall’altra parte.

Svolto in via Gramsci, in fondo alla via c’è la scuola che ho frequentato in un tempo così lontano che sembra appartenere a un’altra epoca. Più avanti sulla sinistra ci sono dei furgoni e delle macchine abbandonate nel parcheggio davanti allo stadio, a metà via sulla destra c’è la mia meta: una palazzina rosa a due piani adibita a uffici. Al primo piano c’è un terrazzo dal quale si innalzano due pennoni con le bandiere dell’Italia e dell’Unione Europea che sventolano piano, al secondo piano un altro terrazzo. Devo rischiare, non ho più tempo, speriamo sia un posto adatto per passarci la notte, altrimenti sarò nei guai. Rifaccio la parodia del morto vivente a beneficio degli zombie che sono lontani in fondo alla via. Avanzo a passo di lumaca, con la coda dell’occhio vedo cinque zombie inginocchiati fra due furgoni, stanno mangiando qualcosa che non riesco a identificare, fanno dei rumori ributtanti mentre strappano e ingurgitano i bocconi. Per fortuna sono occupati, così da vicino non li avrei ingannati, sto rischiando parecchio, ho degli zombie alle spalle e anche davanti, se si accorgono della mia presenza sono nei guai.

 

 

La nuova casa

 

Eccomi arrivato. Il portone in cima ai due scalini di marmo bianco è aperto, alzo la bici, li salgo ed entro nell’androne, nessuno in vista.

Lascio la bici, controllo i locali, per il momento ignoro quelli con la porta chiusa, le altre stanze sono vuote, salgo le scale e proseguo l’ispezione. Gli uffici sembrano abbandonati da poco, tutto è in ordine: i monitor dei computer sulle scrivanie, i fascicoli delle pratiche impilati, tutto come se da un momento all’altro dovessero arrivare gli impiegati. In un angolo vedo un distributore dell’acqua, il contenitore trasparente è pieno a metà, levo lo zaino dalle spalle e prendo la mia bottiglia, svito il tappo e la metto sotto il beccuccio dell’erogatore, premo il pulsante, niente, senza corrente non funziona. Allora alzo il boccione dal distributore, sprecando della preziosa acqua che cade a terra, prendo un foglio di carta bianco e improvviso un imbuto; una volta riempita la bottiglia, la porto alla bocca e bevo dei lunghi sorsi, avevo una sete bestiale, nonostante l’ora fa ancora caldo, poi con questo giaccone addosso… La carta che ho usato per l’imbuto la uso per chiuderlo.

Arrivo al secondo piano, anche qui tutto in ordine e soprattutto nessuna presenza indesiderata.

Scelgo l’ufficio dotato di terrazzo, vado a prendere il boccione dell’acqua e lo porto nella stanza, chiudo la porta a chiave, davanti ci trascino una scrivania, la prudenza non è mai troppa. Metto lo zaino su una sedia e cerco il binocolo, voglio dare un’occhiata della situazione dall’alto, apro la porta finestra ed esco sul terrazzo. Sento abbaiare, da dietro l’edificio spunta una ragazza seguita da un cane, stanno correndo sono inseguiti da due zombie: una vecchia con solo la gonna, le manca un seno e ha il ventre dilaniato da cui pendono parti di intestino e un grassone con la tuta sporca di olio, grasso o sangue, non distinguo bene, dà l’idea di un meccanico; ha la faccia ridotta come un teschio, la testa è stata rosicchiata fino all’osso, un pezzo di scalpo con i capelli, gli pende sul dietro come un orrendo codino, un occhio penzola sul viso e ha un solo braccio proteso, l’altro ciondola inanimato.

La ragazza è giovane, ha uno zaino sulle spalle, indossa scarpe da ginnastica, un paio di jeans e un giubbotto dello stesso tessuto, in testa un berretto da baseball da cui spunta una lunga coda di capelli castani, continua la sua corsa in cerca di un posto dove potersi nascondere; il cane al suo fianco è un labrador, ogni tanto si ferma ad abbaiare contro gli zombie, poi riparte per raggiungere la sua padrona. La ragazza ha una bella falcata, non avrebbe problemi a distanziarli, ma dalla sua direzione capisco che sta andando verso i furgoni, dove prima ho visto gli altri zombie intenti a banchettare, le urlo: «Attenzione! Non da quella parte, lì ce ne sono altri!»

Lei non sente, a differenza del grassone che invece si blocca e alza la testa. Faccio un passo indietro accostandomi al muro, spero non mi abbia visto.

Da dietro i furgoni sono usciti gli zombie, l’abbaiare del cane li aveva già messi in allerta, la ragazza non fa in tempo a fermarsi e ci sbatte contro, la afferrano per i vestiti, non ha nessuna possibilità di scappare. La fanno cadere a terra, le sono sopra, la stanno divorando, le gambe si muovono, cerca ancora di sottrarsi a quella morte lenta e dolorosa ma una pozza di sangue si sta allargando sull’asfalto sotto di lei. Non vedo il grassone, controllo tutta la strada ma non c’è traccia di lui, invece la vecchia è accucciata vicino al corpo agonizzante della ragazza, le sta divorando una gamba, la giovane scalcia ma lei le resta attaccata come una sanguisuga. Il cane gira intorno all’orrendo banchetto abbaiando e ringhiando, azzanna i polpacci degli zombie, tira, cerca di levarli da sopra la sua padrona, ma non serve, non contro quegli aggressori innaturali. Uno di loro si gira e tenta di afferrarlo ma lui si allontana e si avventa su un’altra gamba.

Rientro e chiudo i vetri, almeno attenuano le urla di quella povera sventurata, ho sempre evitato di guardare i film dell’orrore perché poi li sognavo di notte e ora ci sono nel mezzo.

Che fine avrà fatto il grassone? Sarà nascosto nell’ombra in attesa come un gatto pronto a lanciarsi in un attacco? In fin dei conti sono dei predatori e sono guidati solo dall’istinto della fame. La mia mente immagina scenari terribili, dove io sono la portata principale.

Dalla strada non proviene più nessun rumore, esco, gli zombie si sono allontanati, la ragazza è distesa al suolo, ridotta malissimo: l’addome e il torace sono spariti, sulle cosce ha profonde ferite, è rimasta sana solo dalle ginocchia in giù, se finisci preda di un branco di zombie ti riducono da schifo. Per ora ne ho visti pochi trasformati naturalmente, se così si può dire, com’è accaduto a Laura, gli altri presentano tutti lesioni più o meno estese, morsi, graffi e mutilazioni.

Passa il tempo, ormai è quasi buio, il corpo della ragazza ha le prime contrazioni, aumentano, in qualche modo riesce a mettersi a sedere, gira la testa spaesata come se non sapesse cosa è successo e dove si trovi. Un movimento sotto un furgone attira la mia attenzione: è il cane, ecco dov’era andato, esce dal suo nascondiglio e va verso la sua padrona, non è convinto, si muove piano strusciando la pancia a terra. Non lo fare, vattene! penso, invece continua ad avvicinarsi. Lei l’ha visto, le braccia si protendono, il cane continua ad avanzare, lo sento uggiolare:

Vattene, trova un’altra padrona cui dare il tuo affetto.

Troppo tardi, le mani scattano e afferrano il labrador, la bocca si avventa sul dorso peloso staccando un grosso pezzo di carne; il cane guaisce, cerca di liberarsi da quella stretta che un tempo era amorevole, morde quelle carni ormai morte e insensibili, tutto inutile, la ragazza continua a cibarsi del suo fedele compagno, masticando altri pezzi di carne sanguinolenta.

Rientro e chiudo la porta finestra, sono nauseato, la scena mi ha fatto venire in mente il conte Ugolino che si cibava dei figli. Per fortuna gli animali non si trasformano, ci mancherebbe anche di trovarsi davanti una muta di cani infernali. Ora che ci penso non ne ho visti in giro o hanno fatto una brutta fine o hanno capito di doversi tenere ben lontano dagli uomini.

Vado alla porta, appoggio l’orecchio al battente, nessun rumore, e mi domando ancora una volta che fine abbia fatto il grassone.

Ritorno sul terrazzo, il cane è morto, la padrona si sta allontanando, strisciando, aiutandosi con le braccia.

Ora è buio, porto una sedia sul terrazzo e mangio una succulenta cena a base di fagioli e tonno in scatola, freddi e sconditi per giunta.

È incredibile, fino a un mese fa non mi sarei neanche sognato di cenare così. Ero abituato, come tutti del resto, a vivere nel benessere, nel superfluo, a considerare tutto come dovuto, bastava che su una mela ci fosse una piccola macchia e non la compravo: adesso questo magro pasto è diventato un lusso.

Una bella luna piena rischiara la strada, una volta illuminata dai lampioni e dal via vai delle macchine, adesso ci sono molti zombie che si trascinano per strada, alcuni si avvicinano al cane, poi lo ignorano, se la preda non è viva e calda non interessa.

L’aria va rinfrescandosi, sarebbe stata la serata ideale per uscire a fare una passeggiata romantica; cose di altri tempi. Laura mi manca tanto, ci saremmo mangiati un gelato, camminando mano nella mano, poi una volta rientrati ci saremmo lasciati andare a dolci effusioni.

Arrivano le prime zanzare, non le sopportavo prima, quei piccoli vampiri succhia sangue, figurati ora, chissà chi hanno punto. Alcuni scienziati incolpavano loro per la propagazione del virus, però l’infezione si espandeva anche nell’altro emisfero dove era inverno, quindi niente zanzare.

Entro e chiudo, meglio fare una bella sudata che ritrovarsi con la sgradita compagnia di quegli insetti fastidiosi.

Preparo il giaciglio per la notte, prendo i fogli di carta che trovo sulle scrivanie e nello schedario e li butto in terra, sopra ci metto il giubbotto, devo accontentarmi di questo. Vado sul terrazzo e orino di sotto, prendo in pieno uno zombie sulla testa, non se ne accorge neanche continua a camminare come se nulla fosse. Sono stanco, meglio andare a letto.

Si dice che la notte porti consiglio ma a me ha portato solo incubi: la morte di Laura, il viaggio per arrivare qui, il grassone, il bimbo, il cane, tutto si mescola in un pot-pourri di immagini che si mischiano fra loro creando universi alternativi che durano pochi istanti per poi svanire; come risultato mi sveglio e non riesco più a prendere sonno, ho anche un certo mal di schiena causato dall’aver dormito sul pavimento.

 

 

Un nuovo giorno

 

Sono sveglio, dalle finestre vedo che il cielo è appena rischiarato dal sole nascente. Mi alzo, tanto non riesco a riposare con il caos che ho in testa in questo momento, e faccio colazione con una barretta di cereali. Giusto in fondo alla strada, davanti alla scuola, c’era un bar dove andavo a fare colazione prima di entrare a lezione, i cornetti erano burrosi, morbidi e con un signor cappuccino ti facevano affrontare la giornata nel modo giusto.

Prendo il binocolo, esco sul terrazzo, l’aria fresca del mattino accelera il risveglio, punto il binocolo verso destra e il cuore per un attimo sobbalza: gli spalti davanti alle mura sono gremiti di zombie che si muovono a casaccio, sono tantissimi, centinaia, migliaia. Pensavo che entrare in città sarebbe stato facile, non credevo che mi sarei trovato davanti a un’orda demoniaca. Ora che faccio? Ormai sono qui, prima di cambiare destinazione vale la pena uscire e controllare meglio la situazione, da questo lato delle mura non è buona ma dalla parte opposta chissà.

Rimetto il binocolo nello zaino, indosso il giubbotto e sono pronto per uscire, controllo che tutto sia a portata di mano, il machete e il coltello; sposto la scrivania, sblocco la porta, prendo la lancia e apro l’uscio con cautela: che fine avrà fatto lo zombie ciccione dopo che mi ha sentito urlare? Ha rinunciato a un buon banchetto, perché? Sarà venuto a cercarmi? Non sono così intelligenti… o no?

Esco, scendo le scale e ricontrollo gli uffici, non voglio trovarmeli alle spalle in caso di una veloce ritirata. Sento dei rumori che provengono dalla stanza dove c’era il distributore dell’acqua. Merda! Ieri sera per la fretta di salire non ho chiuso la porta dell’androne, impugno la lancia con entrambe le mani ed entro nella stanza.

Uno zombie di spalle, non il grassone, è fermo nel centro del locale, chissà cosa sta pensando… se sta pensando. Avverte la mia presenza, si gira di scatto e carica; ha la faccia devastata, gli manca la mandibola, il naso, ha un solo occhio, al posto dell’altro c’è una cavità nera di sangue rappreso e ha la gola squarciata. Sussulto dalla sorpresa, il secondo di ritardo mi fa sbagliare il colpo e la lancia gli si pianta sotto lo sterno, inefficace. Lui continua a spingere e io mi ritrovo con le spalle alla parete. La lama affonda nella carne ed esce dalla parte opposta, lo zombie scivola lungo l’asta non sente dolore vuole solo sbranarmi. Afferra la manica del mio giubbotto con una mano e con l’altra cerca di artigliarmi il viso. Mollo l’asta e con la mano sinistra gli stringo la gola o almeno quello che ne rimane, le dita affondano nella carne putrida, un liquido nerastro sgorga nei punti di pressione con la destra cerco il coltello, lo estraggo e lo affondo nella sua tempia. Si blocca, come se avessi premuto un interruttore, ritraggo il pugnale e del materiale rancido e puzzolente esce dalla ferita colandogli lungo il viso. Lo spingo lontano e cade sbattendo la testa su una scrivania, il cranio si spappola come un frutto maturo, pezzi di materia cerebrale nera si spargono sulle mattonelle chiare. Controllo il giubbotto dove mi ha afferrato, il tessuto ha resistito, meno male: questa volta mi è andata bene, ma devo stare più attento.

Pulisco la mano sui suoi pantaloni, che schifo, ho pezzi di carne marcia sotto le unghie. Ho il mio bel daffare per recuperare la lancia, la lama è incastrata; lo metto su un lato e spingo l’asta facendola passare attraverso il corpo, la pulisco con i fogli di una pratica intestata a un certo Aurelio Baccini, sul frontespizio della cartellina c’è scritto in un’elegante grafia femminile: “Revisione situazione patrimoniale per esenzione”. Chissà che fine ha fatto il signor Baccini?

Esco dalla stanza non dovrebbe esserci nessun altro, altrimenti il rumore della lotta li avrebbe attirati.

Chiudo tutte le porte a chiave, se l’avessi fatto ieri sera, avrei evitato il rischio di lasciarci le penne.

Cerco un bagno, la paura ha fatto il suo effetto; sacrifico un po’ d’acqua per darmi una lavata al viso e alle mani.

Chiudo la bici in un ufficio, uscirò a piedi, sarò più lento però alla bisogna potrò nascondermi. Chiudo il portone e imbocco la strada in direzione della stazione.

 

 

Un nuovo mondo

 

Ripercorro la via che ho fatto ieri, a ogni traversa che offre la visuale verso la città esploro con il binocolo, gli spalti sono gremiti di zombie.

Da viale Cadorna ho una buona veduta di porta Elisa, anche lì la situazione non cambia, centinaia di zombie si aggirano fra veicoli militari abbandonati e barricate fatte con sacchi di sabbia. Non è quello che mi aspettavo, credevo di trovare una situazione critica, ma sotto controllo con le antiche porte aperte e presidiate, in attesa di ricevere qualche sopravvissuto come me. Abbasso il binocolo e controllo che non ci siano zombie in avvicinamento. Cambio posizione, attraverso la strada a grandi passi, voglio rimanere allo scoperto il meno possibile, e uso il tronco di un albero come riparo, da qui vedo bene Porta Elisa. Non ho attirato l’attenzione di nessuno, quindi riprendo il binocolo e vedo che i vecchi battenti della porta centrale sono stati chiusi, sbarrando così l’accesso principale, mentre i due laterali pedonali sono stati murati, buon segno.

Continuo il giro, arrivo in via Oberdan, voglio rendermi conto della situazione anche su questo lato. Prendo il binocolo dallo zaino, quando sento uno scalpiccio, mi giro e dal fondo della strada vedo arrivare un folto gruppo di zombie; mi guardo intorno per trovare un rifugio e vedo un negozio di telefonia che ha la porta aperta. Cercando di farmi il più piccolo possibile lo raggiungo, controllo che non ci sia nessuno all’interno e accosto la porta che ha il vetro rotto, più di tanto non posso chiuderla perché alcuni pezzi di vetro si sono andati a incastrare sotto il battente, quindi la accosto meglio che posso e vado a sistemarmi vicino al bancone, in una zona d’ombra, sperando che questo basti per non farmi scoprire. Sento lo strascichio dei loro piedi sull’asfalto, li vedo passare, sono tutti giovani di entrambi i sessi, guardano fisso davanti a loro, stanno andando in direzione delle mura; forse si ricordano della vita precedente quando passavano le ore davanti al locale “la Veneta”, bevendo aperitivi, mangiando gelati e parlando ad alta voce. Che staranno provando ora? Non si guardano, non si toccano, procedono solo nella stessa direzione. Avranno consapevolezza dei loro simili che hanno vicino?

Con lo zaino urto inavvertitamente un polveroso cartello pubblicitario facendolo cadere. Smetto di respirare. Uno zombie si ferma, poi due, quattro, tutto il gruppo, si guardano intorno, in cerca della fonte del rumore. Porto la mano davanti al naso ed espiro piano, mi viene da starnutire per il pulviscolo che c’è nell’aria. Stanno lì in piedi ad aspettare, uno di loro fa qualche passo verso la vetrina, prego di non essere visto. Il gruppo riprende la marcia, quello vicino al vetro aspetta ancora qualche secondo poi anche lui si volta e riprende il suo cammino per chissà dove.

Si allontanano, bevo, ho la gola arida. È ora di proseguire, arrivo in cima alla via, da qui ho una splendida visuale, sulla destra fin oltre Porta Elisa e davanti a me quasi fino alla stazione, gli alberi che costeggiano la circonvallazione intralciano un po’ la panoramica ma tanto vedo solo zombie, tanti, troppi.

Prendo lo zaino e lo metto sulle spalle, prima di muovermi controllo che la via sia sgombra. Un movimento attira la mia attenzione: non è possibile! In lontananza, sulla strada da dove sono arrivato, vedo il grassone che sta venendo da questa parte. Non posso sbagliarmi è proprio lui, ecco che fine aveva fatto, mi allontano alla svelta prima che si avvicini troppo.

Voglio vedere se anche la sortita del baluardo Cairoli è bloccata, ma sul viale non posso proseguire, è pericoloso, solo una ventina di metri mi separerebbe da quell’orda famelica.

Torno indietro, costeggio la struttura del mercato ortofrutticolo e risalgo da via Nazario Sauro; una volta arrivato all’incrocio con viale Giusti vedo che anche la porta della sortita Cairoli è stata murata.

Riprendo il giro, ci sto impiegando più tempo del previsto perché, per non rischiare brutti incontri, devo percorrere tutte strade laterali e ogni volta che incontro degli zombie devo nascondermi e aspettare che il pericolo passi. Il sole è già alto nel cielo, faccio una sosta per riposare, mangiare e bere, ho ancora molta strada da percorrere.

Arrivo in piazzale del Risorgimento, anche porta San Pietro è sbarrata e presidiata da zombie; non ho potuto controllare la sortita Valadier, della Stazione e del baluardo Santa Maria perché sono nascoste alla vista.

Per proseguire vado alla vicina passerella ferroviaria, scavalco il muro e cammino lungo i binari della linea Firenze-Viareggio, non correrò certo il rischio di essere travolto da un treno. Passo sotto il cavalcavia di viale Europa ma qui ho un intoppo: dietro un pilone ci sono tre zombie, mi hanno visto. Affrontarli tutti e tre assieme sarebbe un suicidio, perciò inizio a correre. Loro si mettono all’inseguimento, non procedono tutti alla stessa velocità; giro la testa e vedo che il gruppo si è sgranato, quindi mi fermo e mi fiondo sul più vicino, con un colpo preciso gli pianto la lancia nella bocca, non basta, estraggo il machete e gli apro la testa in due. Arriva il secondo a braccia protese, lo evito e contrattacco staccandogli per metà la testa dal collo, crolla a terra riverso sui binari con il machete incastrato nella colonna vertebrale. Il terzo è il più lento, ho tempo di andare a prendere la lancia e andargli incontro, uso l’asta per farlo cadere e quando è a terra, mentre sta cercando di rialzarsi, gli sfondo la faccia con la lama.

Finito, torno a recuperare il machete, lo zombie è ancora vivo, non riesce a muovere il corpo, però segue ogni mio movimento con gli occhi e apre e chiude la bocca, gli pianto la punta della lancia nella tempia, fine dei giochi. Punto il piede sul corpo inerme, afferro il machete e tiro, fa un po’ di resistenza ma alla fine esce.

«Perché nei film, riescono sempre a decapitarli con un colpo solo? Forse perché sono dei film» mi rispondo. «Ahia! Comincio a parlare con me stesso, brutto segno.»

Con la manica asciugo la fronte dal sudore, dietro la recinzione che delimita la ferrovia c’è qualcuno, ma non mi preoccupo più di tanto, qui sono al sicuro. Ha uno zaino, occhiali da sole e un cappello da baseball: sembra troppo in salute per essere un morto. Ci studiamo per un po’, quindi prendo l’iniziativa e gli vado incontro.

«Ehi, ciao.»

Lo sconosciuto arretra di qualche passo, si gira e scappa. Gli grido: «No, aspetta! Non sono pericoloso» poi guardo la mia mano che stringe il machete da cui cola del liquido nero.

Non ho fatto una bella impressione, penso che se fossi stato in lui e avessi visto un uomo armato che si avvicinava, avrei fatto la medesima cosa: di questi tempi è difficile fidarsi anche dei vivi.

Saranno le tre del pomeriggio, il caldo è atroce, il frinire delle cicale è l’unico rumore che sento, apro l’ultima bottiglietta d’acqua, spero di trovarne dell’altra in qualche negozio. Arrivo all’inizio di via Luporini, anche porta Sant’Anna è chiusa, gli zombie ora sono più lenti del solito, sarà il caldo e la luce intensa che li mandano in una specie di torpore, come gli squali che dal tramonto alla mattina sono attivi e di giorno sono in uno stato di semi veglia.

Il tempo passa, devo sbrigarmi, ho impiegato mezza giornata per arrivare fin qui e sono solo a metà del giro. Forza, zaino in spalla e gamba buona.

Arrivo a porta San Donato, chiusa, quindi nell’ordine passo davanti alla sortita del baluardo San Frediano, porta Santa Maria, alla sortita del baluardo San Martino, porta San Jacopo e alla sortita del Bastardo. Sono tutte chiuse. Bene, vuol dire che qualcuno si è preso la briga di isolare la città, le possenti mura rinascimentali che l’hanno difesa per secoli continuano a fare il loro dovere ma dentro ci sarà ancora qualcuno vivo?

Prima di rientrare al mio nascondiglio vado in cerca di viveri; vicino alla chiesa di San Marco ci sono dei negozi di generi alimentari e un forno, magari riesco a trovare ancora qualcosa. Il cambiamento è stato così repentino che la gente non avrà avuto il tempo di saccheggiare tutto.

Il sole è vicino a tramontare, il primo negozio che trovo è il fornaio, la vetrina è rotta, brutto segno, entro e ci impiego poco a capire che il locale è già stato saccheggiato: gli scaffali sono a terra, anche la cassa è stata svuotata, continuo a chiedermi che se ne faranno del denaro?

C’è una porta dietro il bancone, quella che dà accesso al laboratorio, vado sulla soglia, buio, non si vede nulla; batto con la mano sull’anta, sento dei ringhi e rumore di passi strascicati che si avvicinano, chiudo subito e girò la chiave: un feroce grattare e un lugubre lamento mi confermano che ho fatto bene a essere cauto. Nel disordine generale trovo una biro e un foglio, sul quale scrivo: “ATTENZIONE, ZOMBIE” disegno anche uno smile triste, ci faccio un buco e lo appendo alla maniglia. Se qualche altro sopravvissuto passasse di qui, è avvertito. Quasi, quasi ci scrivo anche “Do not disturb” come negli alberghi.

Dall’altra parte della strada c’è un ristorante cinese, la saracinesca è abbassata e chiusa con un grosso lucchetto, forse dentro ci sono viveri, ma io non ho arnesi adatti a scassinarlo, inoltre il rumore che farei attirerebbe tutti gli eventuali zombie dei dintorni.

Ritento in un altro negozio, questo è di frutta e verdura, nelle cassette c’è ancora qualcosa ma è tutto ricoperto da uno strato di muffa, nei congelatori le confezioni si sono imputridite. Un grosso topo esce da sotto uno scaffale, mi passa fra i piedi e scappa fuori, accidenti a lui, mi ha fatto prendere un colpo. Non trovo nulla di commestibile neanche qui, ora sarà meglio che ritorni al mio rifugio, la luce sta scemando.

Facendo molte deviazioni per evitare gruppi di zombie, arrivo al mio palazzo personale. Il portone è ancora chiuso, non ho avuto visite; entro e controllo che anche le porte interne siano chiuse. Prima di salire mi ricordo di sbarrare l’ingresso, poi vado in bagno; avrei bisogno di una doccia ma senza acqua la vedo dura. Chiudo la porta della mia stanza bloccandola con la scrivania e riempio le bottigliette di acqua, nel boccione ne rimangono ancora circa cinque litri, a cose normali la consumerei in un giorno, ma nella situazione in cui sono me la devo fare durare il più a lungo possibile. Ho fame, guardiamo cosa offre la casa: zuppa di ceci a temperatura ambiente, ovviamente. Apro la lattina tirando la linguetta di alluminio, la sbobba che c’è dentro è così densa che si fa fatica a mandarla giù.

Faccio un piccolo inventario delle provviste che mi sono rimaste: un’altra lattina di zuppa, due confezioni di cracker e tre merendine alla frutta: speriamo di trovare qualcosa da mangiare nei prossimi giorni. Vado sul terrazzo, il sole è già tramontato, la strada inizia ad affollarsi e mentre finisco di mangiare metto ordine nei miei pensieri.

Primo: Lucca ha tutte le porte chiuse e anche le sortite, alcune non sono riuscito a vederle, ma se tanto mi dà tanto anche quelle sono ben chiuse. Questo vuole dire che dentro ci possono essere dei sopravvissuti che si sono presi la briga di isolare la città; può anche darsi che dopo essersi isolati siano comunque morti per il contagio.

Secondo: come posso entrare? Gli ampi spalti, che separano la strada dalle mura, sono presidiati da migliaia di zombie che non vedono l’ora di mettere i denti su della carne fresca.

Terzo: conviene entrare? Se dentro ci sono persone vive sono in salvo, se non ci sono, sono cazzi, il viaggio è di sola andata. Anche restare fuori ha i suoi pro e contro; oggi ho visto solo una persona viva e non abbiamo interagito bene, quella di ieri invece ha fatto una brutta fine.

Potrei andare a Viareggio o in montagna o da altre parti, ma chi mi assicura che la situazione sia migliore? Invece quelle solide mura mi danno sicurezza, esercitano su di me un richiamo, come le sirene di Ulisse, sperando che non mi facciano naufragare per poi divorarmi.

Sono stanchissimo e si dice che la notte porti consiglio. Sto per rientrare quando, nella strada illuminata dalla luce della luna piena, dalla circonvallazione vedo arrivare uno zombie: ha un’andatura familiare, prendo il binocolo. Non ci credo, ancora lui! Il grassone barcolla in questa direzione, ma com’è possibile? Stamani l’ho visto nella zona del mercato e ora spunta da dove sono arrivato stasera, avrà fatto il giro completo? Sarà un caso? È impossibile che mi abbia seguito, forse qualche ricordo lo lega a questa zona e la ripercorre all’infinito. In ogni caso faccia come vuole, tanto ho chiuso tutto, sono al sicuro.

Prendo il telefono, l’ho lasciato tutto il giorno sul terrazzo attaccato al caricabatteria solare, l’accendo, nessun servizio di rete; una volta mi sarei arrabbiato ora è solo una conferma di questa triste realtà. Rientro e provo a dormire, senza riuscirci, quindi mi metto a cercare nella galleria le fotografie della vacanza a Cuba: la spiaggia, il mojito, il daiquiri, gli amici e soprattutto lei, l’altra metà del mio cielo. In una foto siamo in acqua con accanto un delfino. Era un’escursione organizzata dal villaggio, era tanto che volevamo nuotare con un delfino, l’unico neo era che per andare nel luogo prefissato bisognava prendere un catamarano; Laura e le barche non andavano d’accordo, però quella volta si sacrificò volentieri.

Mi giro su un fianco, metto il telefono sotto la guancia e finalmente piombo nel sonno.

 

 

Mettiamoci all’opera

 

Il sole negli occhi mi sveglia riportandomi alla realtà. Ho avuto un sonno agitato, mi sono svegliato spesso rimuginando sul da farsi. Vado sul terrazzo e guardo le mura pensieroso.

Va bene, tentiamo l’impresa e che Dio me la mandi buona.

Per festeggiare la mia decisione mangio una merendina, intanto penso a un punto di osservazione adatto per studiare il piano d’azione.

Faccio una veloce sosta al bagno, che sta diventando inutilizzabile, prendo lo zaino e scendo al piano terra. Apro il portone e do una sbirciatina a destra e sinistra, c’è solo uno zombie lontano, aspetto un attimo che volti l’angolo ed esco in strada.

Cammino per vie traverse e arrivo all’inizio di via Matteo Civitali, qui la strada è intasata da macchine incolonnate, le avevo viste anche ieri da lontano. In terra ci sono molti cadaveri, tanti sono zombie ma altri no, non hanno avuto il tempo di trasformarsi, qualcuno ha provveduto a fracassare loro la testa. Il fetore è insopportabile, mi copro il naso con una mano, nugoli di mosche ricoprono i cadaveri, sull’asfalto ci sono bossoli di proiettile e cartucce di fucile: qui ci deve essere stata una bella battaglia. Controllo che sotto le auto non si nasconda qualche spiacevole sorpresa, poi ne ispeziono l’interno; sono fortunato, in alcune trovo delle lattine di bibite, acqua, confezioni di frutta sciroppata e altri generi di scatolame, stasera festa grande!

Quello che posso lo metto nello zaino, il resto lo divido in più parti che poi nascondo, all’occorrenza tornerò a recuperarlo. Nel bagagliaio di una berlina grigia trovo anche due taniche verdi con il tappo argentato, le apro per vedere cosa contengono, l’odore pungente mi conferma che sono piene di benzina, una la nascondo e l’altra la lascio lì, a qualche altro sopravvissuto può servire.

In una vecchia panda 4×4 verde c’è il cadavere in decomposizione di un uomo, è seduto al posto di guida, ha la testa spappolata, il sangue è schizzato da tutte le parti sporcando i sedili, lo sparo ha aperto un buco nel tetto. Apro lo sportello, fra le gambe tiene un fucile da caccia con la canna rivolta verso quello che rimane della testa. Attorno al veicolo, sul selciato, ci sono parecchi cadaveri di zombie. Chissà perché si è sparato, forse per la disperazione o perché era stato infettato o non voleva essere divorato. Valuto se prendere l’arma, ispeziono la macchina, ma non trovo altre cartucce, l’ultima l’avrà usata per togliersi la vita, e senza munizioni è solo un pezzo di ferro, quindi lo lascio dov’è, mi sarebbe solo d’impaccio.

Ritorno al problema di come entrare in città. Come posso fare? Ripesco nella memoria le tediose lezioni di storia delle elementari: le mura sono lunghe poco più di quattro chilometri e sono circondate da prati erbosi più o meno ampi detti spalti, c’è un piccolo fossato a circa metà dello spalto, tranne che nella zona del campo Balilla, dove scorre alla base delle mura. Questo lo so per certo perché in quel prato venivano montate le tensostrutture del Lucca Comics, ho passato intere giornate lì dentro a giocare a Magic, ai videogiochi o a guardare i banchi degli espositori.

Non ricordo quanto siano alte le mura, ma dovrebbero essere sette o otto metri, un metro non è tanto ma potrebbe fare la differenza fra riuscire o fallire. Nelle vicinanze c’è un negozio di ferramenta, così decido di andare a vedere se trovo quello che mi serve.

Arrivo al negozio, all’esterno ci sono ancora le scale in esposizione, sono di alluminio, una in particolare è telescopica, sono fermate da una catena con un piccolo lucchetto. Ispeziono l’interno, è stato portato via quasi tutto, sono rimasti solo elettroutensili, barattoli di vernice, solventi e lubrificanti, le scale non dovevano interessare a nessuno.

Prendo l’accetta dallo zaino, la avvolgo nella mia maglietta e la calo con forza sul lucchetto, che cede al primo colpo non ho fatto troppo rumore, però aspetto un po’ per vedere se arriva qualcuno. Nessuno. Prendo la scala, la metto a terra e la allungo, quindi mi metto di lato e conto uno, due, tre, quattro, cinque, sei passi; ci dovremmo essere, un mio passo sarà più di un metro, sono alto uno e ottanta, dovrebbe bastare, inoltre è anche leggera.

La sto richiudendo quando dal fondo della strada sbuca uno zombie, entro nel negozio, sporgo la testa per vedere che direzione prende. Merda! Sta venendo da questa parte, meno male che è da solo.

Si avvicina… Un momento, è ancora lui, il grassone! È arrivato dalla strada da dove sono venuto. Esco dal negozio estraendo il machete.

«Basta, mi sono stancato della tua presenza. Non so se sei incrociato con un cane da caccia o se sei il primo esponente di zombie vagamente intelligente, ma adesso è l’ora di farla finita.»

Aumenta la velocità, lo aspetto, evito il suo primo attacco e con un colpo preciso gli spezzo metà del braccio proteso.

«Che fai, volevi abbracciarmi?»

Quando si gira gli pianto il machete in quella faccia rosicata che si ritrova, una due tre volte, voglio vedere cosa ha di differente dentro. Crolla a terra, dalle ferite fuoriesce la solita poltiglia maleodorante, nulla di speciale.

«Stronzo, ora la finirai di venirmi dietro.»

Anche se è morto lo prendo a calci e sfogo su di lui la rabbia repressa che porto dentro da settimane.

Alzo la testa, stanno arrivando quattro zombie, sono stati attirati dalle urla, sono vicini, nella foga dello scontro non ho controllato la strada. Gli ultimi giorni li ho passati sempre all’erta, come uno scoiattolo che mentre mangia la noce scruta sempre i dintorni, e ora mi sono distratto. Anche dalla parte opposta stanno arrivando altri zombie, sono in trappola fra due fuochi.

Prendo la scala, entro nel negozio e abbasso la saracinesca, è una di quelle a grata e non la posso fermare perché la chiusura è all’esterno.

Appena arrivano si accalcano, ringhiano, protendono le braccia, cercano di prendermi. Maledizione! Stamani non ho preso la lancia, ora sarebbe tornata utile. Ho bisogno di qualche minuto per pensare. Di solito questi negozi hanno una porta che dà su un cortile interno per lo scarico delle merci. Mi rimetto la maglietta, lascio gli zombie e finisco di esplorare il locale, trovando in effetti una porta che dà accesso al magazzino. Entro con cautela. Da piccole sudice finestre, poste in alto, entra la luce del sole che illumina una fila di scaffali polverosi; prendo un barattolo di solvente e lo tiro in un angolo, il rumore rimbalza sulle pareti. Trattengo il respiro, non ho risvegliato nessuno, molto bene.

Sulla parete in fondo c’è un portone a saracinesca e di lato c’è una porta con la chiave nella toppa, la giro due volte, la socchiudo, non vedo nessuno, esco e sono su un cortile: se questa non è fortuna!

Vado a recuperare la scala, alla grata si è riunita una piccola folla, si accalcano, ringhiano, sbavano, annaspano nel vano tentativo di prendermi. Sono riusciti a rompere la vetrina, ma la saracinesca è troppo dura per loro. Li saluto con la mano e me ne vado dall’uscita sul retro.

Vado in via Marti, dove c’è un palazzo rosso con dei terrazzi che hanno una bella vista sulle mura, peccato che è tutto ben chiuso. Potrei sfondare la porta, però farei troppo rumore e non è consigliabile con una marea di zombie affamati a poche decine di metri. Poco male, ho la scala. L’appoggio alla parete e salgo sul terrazzo al primo piano, per sicurezza la tiro su, la tapparella della finestra è calata, anche da qui non si entra. Da questo lato delle mura la situazione è meno affollata, qui accanto c’è il fosso che passando sotto le mura attraversa tutta la città per poi incanalarsi alla fine di via della Rosa. Volendo potrei provare a passare di lì, però chi ha chiuso tutti i varchi di certo non si sarà dimenticato di questo, inoltre il fosso, mentre attraversa lo spalto, non ha i parapetti e non vorrei essere investito da una pioggia di zombie famelici.

Il varco di porta San Jacopo è stato murato, il colore delle bozze grigie contrasta con il rosso dei mattoni rinascimentali.

Rimango per delle ore a osservare le mura senza vedere nessuno, così vado a sedermi all’ombra, anche oggi fa un caldo torrido. Apro una lattina di pesche sciroppate, le finisco tutte e bevo anche il liquido. Una volta non l’avrei fatto per paura di ingrassare, ora invece devo stare attento a non dimagrire troppo.

Si sente un tuono ai monti, un vento forte sospinge nuvole nere gonfie di pioggia che stanno rapidamente coprendo il cielo, sta arrivando un bel temporale. Bene, ci scappa di fare una doccia! Tolgo i vestiti e li metto al riparo sotto i tubi dell’impianto di condizionamento, insieme allo zaino. Passano pochi minuti e iniziano a cadere le prime gocce, che si trasformano ben presto in un violento e rinfrescante acquazzone estivo. Per gli zombie non cambia nulla, sole o pioggia non importa, solo quando percepiscono il fragore di un tuono si guardano intorno cercando la fonte del rumore sperando di scorgere una possibile preda.

Non ho il sapone, perciò strofino le mani sul corpo per levarmi lo sporco, il puzzo di sudore e la polvere di dosso. Il temporale si allontana velocemente, così com’era arrivato, il sole ritorna a splendere e gli do il tempo di asciugarmi: un profumo di polvere bagnata attenua la puzza di decomposizione che ammorba l’aria.

Un passerotto prende terra a debita distanza da me e va a fare il bagno in una pozzanghera, frulla le ali nell’acqua e con il becco si liscia le penne. Resto a fissarlo, lui non ha problemi di zombie, come si avvicina un pericolo spicca il volo e tanti saluti all’aggressore. Alzo la mano che tiene il binocolo e il passerotto prende il volo: come volevasi dimostrare!

Mi rivesto e vado vicino alla ringhiera, sto in piedi, anche se io non vedo loro, magari loro possono vedere me.

Il sole sta tramontando, sono stato qui ore con il binocolo incollato agli occhi senza vedere nessuno, possibile che siano tutti morti?

Abbandono la postazione e ritorno al mio palazzo, la scala la porto con me, non vorrei che qualcuno se la prendesse. Arrivo all’edificio senza particolari intoppi, entro, chiudo il portone e lascio la scala in un ufficio, da dove prendo una scrivania. Butto tutto in terra, fascicoli, monitor, stampanti, telefono e un portapenne, forse fatto da un bambino con parti di mollette di legno attaccate con la colla a un’anima di cartone e colorate a tempera. Guardo una foto che ritrae una signora in costume da bagno intero blu, tiene in braccio una bimba di circa sei anni con un costume rosa e i capelli corti neri che guarda imbronciata il fotografo. Che fine avranno fatto? Trascino la scrivania davanti al portone, meglio evitare visite non gradite. Vado al bagno, questa è l’ultima volta che lo uso, la puzza sta diventando intollerabile. Rientro nella stanza e mi barrico dentro per la notte, ceno con filetti di sgombro e frutta sciroppata.

Ora che ho la pancia piena mi concentro sul piano.

Prima di tutto come faccio ad allontanare gli zombie dalle mura?

Devo studiare un modo per farli spostare, creare un diversivo per allontanarli.

Se voglio entrare da porta San Jacopo, li devo far spostare verso lo stadio o verso porta Santa Maria o in contemporanea da entrambi le parti, cosa non facile.

In via dello Stadio ci sono i furgoni abbandonati e all’inizio di via Matteo Civitali ci sono le macchine incolonnate. La mia mente sta abbozzando una strategia, ma una cosa è pensarla e un’altra è attuarla.

Dopo averci rimuginato un po’, il piano mi si forma chiaro in mente: darò fuoco alle macchine e farò in modo che provochino più rumore possibile così da attirarli; se ci riuscirò la folla davanti alla porta si diraderà, così io potrò correre, appoggiare la scala alle mura, salire e il gioco è fatto! Di sicuro è più facile a dirsi che a farsi, ma non ho molte alternative.

Per provocare il rumore posso prendere le bombolette di vernice spray che ho visto al ferramenta, sistemarle nelle macchine e una volta che il calore si alzerà scoppieranno come popcorn. Però, come faccio ad appiccare il fuoco in simultanea nei due punti? Avrei dovuto guardare qualche puntata in più di MacGyver, forse avrei imparato qualche trucco che ora sarebbe tornato utile.

Dovrei appiccare il fuoco in via dello Stadio, prendere la bici e correre in via Matteo Civitali, accendere il fuoco anche lì e dopo andare in via Jacopo della Quercia, che è la via proprio davanti la porta, aspettare e sperare.

Devo trovare un innesco per avere il tempo di fare il tragitto e andare ad aspettare l’evolversi degli eventi.

Ho già una vaga idea che mi ronza nella testa. Do una carica alla torcia per ravvivare la luce, prendo un foglio e una penna e stilo una lista di quello che mi servirà.

Penso che domani sarà il caso di andare a cercare delle candele per rischiarare la mia stanza di notte, le troverò senza grandi difficoltà, a Lucca non mancano di certo le chiese.

Poso il foglio, spengo la torcia e mi sdraio sul giaciglio di carta. Mi torna in mente un filmato che girava su YouTube, diventato subito virale, per quel poco che era ancora durato internet. Il video riprendeva dei ragazzi americani che, a bordo di un’enorme mietitrebbiatrice rossa, giravano per le strade di una cittadina americana macinando le centinaia di zombie che gli si paravano davanti. Loro dall’alto contribuivano alla bonifica sparando con dei fucili a pompa, facendo esplodere le teste di quelli che si trovavano sui marciapiedi o fra le macchine. Il filmato finiva quando si vedeva che loro scendevano dal mezzo, che forse aveva finito la benzina o si era bloccato, ed erano inseguiti dai morti viventi: almeno uno di loro si doveva essere salvato visto che aveva caricato il video sul web. Farebbe comodo anche a me una mietitrebbiatrice, non avrei problemi ad aprirmi la strada in quella folla, arriverei sotto la cortina delle mura e da lì le scalerei senza problemi.

Pensando a questo, scivolo nel sonno.

 

 

La preparazione

 

La mattina arriva presto, la stanza è rivolta a sud e la luce del sole fa subito capolino cerco di dormire ancora un po’ mettendo una maglietta sugli occhi per creare un buio artificiale e l’espediente funziona perché riprendo sonno. Quando mi sveglio guardo l’orologio del cellulare, sono le nove del mattino, non c’è che dire, ho fatto una bella dormita. Vado al bagno, questa volta a quello al piano terra. Per colazione mangio delle merendine stando seduto sul terrazzo con la schiena appoggiata al muro. Oggi è una giornata tranquilla, ci sono pochi zombie in giro. Decine di corvi e gabbiani stanno banchettando con il corpo del cane in mezzo alla via, si litigano il pranzo con le centinaia di mosche che lo avvolgono, quando si avvicina uno zombie si alzano in volo per poi ritornare quando il pericolo si allontana, non è un bello spettacolo.

Una volta finito di mangiare scendo in strada, chiudo la porta, sistemo lo zaino in spalla e monto in bici. Sono venuto alla chiesa di San Marco per recuperare delle candele. Sul portone è ancora affisso il foglio che avvertiva che le funzioni erano sospese in ottemperanza alla delibera del prefetto di Lucca che vietava gli assembramenti. Questo è quanto diceva la legge, però i parroci si scordavano spesso le porte delle chiese aperte, permettendo così ai fedeli di entrare e pregare.

Con cautela entro dalla porta laterale. Credevo non ci fosse nessuno, invece un paio di zombie si aggirano nella navata, sono due tipi che non mi sarei aspettato di trovare qui, sono tatuati e con giubbotti di pelle senza maniche, sembrano dei motociclisti, sono entrambi belli grossi e hanno delle folte barbe non hanno segni visibili di morsi, però hanno dei profondi graffi sulle braccia, si saranno rifugiati qui, poi una volta trasformati sono rimasti bloccati.

Sono entrato cercando di non fare rumore, aprendo la porta piano, ma quelli hanno un udito come i gatti e si sono accorti subito della mia intrusione e ora si stanno dirigendo verso di me; mi infilo fra le panche per rallentarli. Il primo che prova a seguirmi batte con la gamba nella seduta e cade in avanti, offrendomi la sua testa su un vassoio d’argento, non posso non approfittarne… Il secondo lo blocco spingendogli contro una panca e fermandolo contro il muro. Una volta immobilizzato lo colpisco con la lancia. Mi faccio il segno della croce, ho pur sempre profanato un luogo sacro. Sento un rumore, mi giro brandendo la lancia. Dalla sagrestia sta uscendo una giovane suora, ha il davanti della tonaca strappato, le hanno divorato i seni e l’intestino, deve essere stata attaccata dai due che ho appena eliminato. Viene verso di me, in testa ha ancora il velo sporco di sangue che le copre i capelli; le vado incontro e la colpisco in fronte, cade all’indietro in silenzio. Mi affaccio alla porta da dove è uscita ma non entro: la stanza è semi buia, un odore indescrivibile esce da quell’antro infernale. Batto con il manico della lancia sul pavimento di marmo non esce nessuno.

Le candele le trovo alla cassetta dei ceri votivi, davanti a una cappella laterale, appeso alla parete c’è un grande quadro che rappresenta la Vergine Maria con in braccio Gesù bambino prendo tutte quelle che trovo e le metto nello zaino, prendo anche dei lumini, mi serviranno per scaldare il cibo dei barattoli. Prima di uscire mormoro alcune preghiere.

I giorni seguenti li passo a mettere in pratica il piano, che in codice chiamo: “O la va o la spacca!”. Che fantasia! La solitudine incomincia a farsi sentire.

Gli zombie davanti al ferramenta hanno tolto l’assedio, però preferisco passare dal retrobottega per non fare rumore alzando la saracinesca.

A me interessano le bombolette spray, i solventi e altre sostanze combustibili. Le metto nello zaino e con numerosi viaggi le vado a sistemare nelle macchine. Durante la razzia, ho trovato nascosta dietro una pila di barattoli una stecca intera di sigarette, il proprietario del negozio aveva il vizio del fumo, forse la moglie non era d’accordo e lui le teneva nascoste per potersele fumare in santa pace. Le prendo, magari mi potranno tornare utili per fare l’innesco che avevo in mente.

Devo estendere sempre più il raggio delle ricerche per cercare cibo e altro materiale da mettere nelle macchine. Ogni volta spero prego di incontrare qualcuno, invece ci sono sempre e solo loro.

Il traffico di zombie varia a seconda dei giorni, alcune volte ne incontro pochi, altre volte invece devo interrompere le operazioni perché in giro ce ne sono troppi, e allora passo il tempo sul terrazzo, controllando sulla lista quello che devo ancora preparare e leggendo degli albi a fumetti di Dylan Dog, tanto per rimanere in tema, che sono riuscito a recuperare.

Di frequente passo vicino al vecchio ospedale che era stato dismesso in favore di quello più recente costruito in periferia. All’inizio dell’emergenza, in tutta fretta, fu reso di nuovo operativo per accogliere le migliaia di persone colpite dal virus. Dalle inferriate vedo centinaia di zombie che si muovono fra le grandi tende da campo della Croce Rossa, montate nel giardino antistante ai padiglioni. Quando mi vedono passare si accalcano alle sbarre agitando le braccia nella vana speranza di afferrarmi. Per fortuna qualcuno ha avuto il buon senso di chiudere i cancelli imprigionandoli.

Di sera faccio le prove sui tempi di combustione usando il cronometro del cellulare: una sigaretta ci mette circa tre minuti per consumarsi, il tempo è molto risicato. Lego dei fiammiferi svedesi, che ho preso in un negozio di tabacchi, intorno a una sigaretta, all’incirca un terzo della sua lunghezza, così ho circa due minuti di tempo prima che la brace li incendi. In questo lasso di tempo devo riuscire ad andare in via Matteo Civitali e appiccare il fuoco all’altra macchina. Così facendo, comunque un rogo partirà molto prima dell’altro, ma non so escogitare un altro sistema, devo accontentarmi.

Sono pronto, ho preparato tutto, la scala è nascosta in via Jacopo della Quercia, le macchine sono piene di qualsiasi cosa che abbia trovato di combustibile. Sono stato anche fortunato: nel retro di un’edicola ho trovato alcune scatole di petardi, è probabile che siano quelli rimasti invenduti dal Capodanno, buoni per essere rimessi in vendita alla prossima occasione. Sono per ragazzi, nulla di potente, ma con il silenzio che ora grava su tutto faranno lo stesso un bel fragore.

Poso il quarto innesco sulla scrivania, nell’evenienza che uno faccia cilecca ci sono gli altri tre di riserva.

Ora i preparativi sono finiti, domani mattina è il grande giorno, il mio d-day personale. Ho cercato di pianificare tutto, ora ho solo bisogno di tanta fortuna. Per festeggiare mangio abbondantemente: due scatolette di tonno e una confezione di cracker, domani devo essere nel pieno delle forze.

Esco sul terrazzo, in strada il solito via vai di zombie serale, si fa presto ad abituarsi alle cose.

Accendo il cellulare, metto gli auricolari e faccio partire la musica, apro la galleria e scorro le foto, come al solito un mare di ricordi mi sommerge. Ecco, questa è quella che preferisco: siamo Laura, Stefano e io a sedere su una roccia rossa, sullo sfondo si vede il panorama della Monument Valley, negli Stati Uniti, fu un gran bella gita di famiglia.

Fin da quando ero piccolo e leggevo Tex avevo desiderato andarci e dopo tanti anni realizzavo il mio sogno di visitare il Far West con la famiglia riunita. Ingrandisco la foto, quanto mi mancano… Le lacrime scorrono sulle guance, spengo tutto, fa troppo male. Chiudo la finestra e vado a letto.

 

 

Ci siamo

 

Il sole è già alto quando apro gli occhi. Ho dormito male, incubi e dubbi mi hanno tenuto sveglio per buona parte della notte. Faccio colazione con gli ultimi biscotti e un po’ di acqua, poi vado in bagno.

Preparo lo zaino, ci metto dentro solo l’accetta e le ultime due magliette pulite. Inutile appesantirlo troppo, tanto se fallisco non credo che sopravvivrò.

Esco dal palazzo, il cielo è terso, un bel sole arroventa la strada, ricordo la frase: “Oggi è un bel giorno per morire” rende bene l’idea, ma non ho nessuna intenzione di prenderla alla lettera; veloce toccatina di scongiuro.

In strada non c’è nessuno, vado alle macchine che sono qui nella via, devo fare gli ultimi preparativi, voglio essere sicuro che tutto vada bene. L’ultima cosa che mi resta da fare, è riempire le bottiglie di plastica con la benzina per poi metterle sui sedili, così quando saranno raggiunte dalle fiamme daranno una bella accelerata al rogo. Ho aspettato fino a ora a fare questa operazione perché nel caso avessi cambiato idea avevo adocchiato una station wagon in ottime condizioni che aveva le chiavi nel blocchetto di accensione e che ora ho in tasca; avrei potuto caricarci la bici, fare il pieno e andarmene, finché fosse durata la benzina. Ma andare dove? Ci pensavo anche stamani nel dormiveglia, non riuscendo comunque a trovare una meta adeguata… quindi lego le mie speranze a questa impresa. Le ultime messe a punto mi portano via tutta la mattina, anche perché a un certo punto ho dovuto smettere per la presenza di troppi zombie, ne ho approfittato per riposarmi: fra una cosa e l’altra sono già le tre del pomeriggio.

Ora sono davvero pronto, prendo l’innesco, la mano trema, l’accendino rifiuta di fare il suo dovere, aspetto qualche minuto: calma, ci vuole calma. Lo agito per smuovere il gas all’interno e dopo qualche altro tentativo riesco a ottenere una lunga fiamma gialla, avvicino la sigaretta, la faccio accendere e la pongo con cura sul tappetino dell’auto, in mezzo a stracci e fogli di giornale, accendo anche gli altri e li metto tutti vicini, dalle sigarette si alza un filo di fumo, ci soffio sopra per farle prendere bene; sul sedile posteriore e nel bagagliaio ci sono le bombolette spray, oli lubrificanti, bombolette d’insetticida, lacche per capelli, lattine e parte dei petardi.

Inforco la bici, pedalo più veloce che riesco diretto al secondo punto: perfetto, tempo da record, non ho trovato nessuno a ostacolarmi. Apro la portiera della macchina piena di materiale combustibile, prendo la torcia che avevo già preparato usando uno straccio avvolto in cima a un bastone di legno e la bagno con la benzina, ho usato anche quella della tanica che avevo lasciato visto che non l’aveva presa nessuno, gli do fuoco e la tiro sul sedile del passeggero. Aspetto un attimo per assicurarmi che le fiamme attecchiscano bene, da ora non si torna più indietro. Lo sguardo mi cade sull’autoradio, ma tu guarda, potevo risparmiarmi la fatica, bastava mettere un cd e accenderla a tutto volume… Era troppo semplice. Vado in via Jacopo della Quercia, qui però le cose si complicano, due zombie sono vicini al punto dove ho messo la scala, non ci voleva.

Scendo, rimango nascosto dietro il tronco di un albero in attesa, quando scoppierà la baraonda si allontaneranno anche loro, altrimenti ci penserò io a farli fuori.

Il tempo passa, da qui non vedo nulla, non so se i roghi stanno divampando o se tutto è fallito.

Dopo qualche attimo di apprensione, sento degli scoppi che provengono dalla mia sinistra: allo stadio tutto ok. Con il binocolo osservo la folla davanti alla porta che incomincia a muoversi. Ora gli scoppi arrivano anche dalla parte opposta, gli zombie sono confusi, non sanno dove andare. Merda! Era meglio richiamarli tutti dalla stessa parte.

Oltre alle esplosioni, incominciano a esplodere anche i petardi e l’allarme di una macchina entra in funzione aumentando l’effetto richiamo, ottimo. La folla lentamente si dirada, anche i due zombie vicino alla scala si muovono,o ma vanno troppo piano, non posso più aspettare; inforco la bici, prendo velocità e gli piombo addosso. Passo accanto a quello che è più indietro, è un maschio alto con pochi capelli, e con il machete lo colpisco al collo, anche stavolta non riesco a decapitarlo al primo colpo però lo faccio cadere a terra. Freno, scendo, afferro la bici e la tiro addosso all’altra, una femmina di statura bassa, facendo ruzzolare anche lei, le vado sopra e la finisco con il coltello. L’altro zombie non è morto ma è disteso immobile, ha il collo tagliato per metà e la testa è in una posizione assurda, gli pianto il coltello nel cranio. Recupero il machete lordo di sangue e lo metto nella custodia attendo ancora qualche minuto. Gli zombie davanti alla porta si stanno diradando, prendo il telefono, l’occhio mi cade sull’ora sono quasi le quattro, inserisco il jack, scelgo una canzone dalla libreria musicale, la faccio partire e lo ripongo nel taschino del giubbotto. Posiziono con cura gli auricolari, non sento più gli scoppi, il volume alto mi isola dal mondo: le note di “Eye of the tiger” pompano adrenalina nei muscoli. Sono pronto, inspiro profondamente varie volte, cercando di calmare il tremito che ho nelle gambe. Prendo la scala, la estendo, in questo modo sarò sbilanciato nel correre ma risparmierò tempo al momento opportuno. Focalizzo l’obbiettivo, alzo gli occhi al cielo in una muta preghiera e corro.

Più di cento metri mi separano dalle mura, di cui una buona parte in campo aperto e quindi senza più potermi nascondere come ho fatto fino a ora. Dopo qualche falcata mi rendo conto che forse non avrei dovuto aprire la scala, mi rallenta troppo, ma ormai è troppo tardi per ripensarci.

Sto tentando di fare quello che nel medioevo non sono riusciti a fare gli eserciti nemici, espugnare la città.

Arrivo al semaforo, attraverso la strada, ancora cinquanta metri, sono rimasti anche troppi zombie nelle vicinanze: uno è proprio davanti a me, sente che sto arrivando, si gira, gli sfondo il viso usando la scala come ariete, l’urto si ripercuote fino alla spalla, urlo una maledizione a causa del dolore, rallento. Ancora venti metri, gli zombie ritardatari si sono accorti della mia presenza e stanno convergendo su di me. Un altro zombie si para sulla mia strada, anche questo fa la stessa fine dell’altro. Devo fermarmi un attimo per liberare la scala dal suo corpo poi riparto. Ho perso ancora tempo prezioso e ne stanno arrivando altri. Gli ultimi metri li faccio camminando, alzo la scala più veloce che posso, controllo che sia stabile e salgo. Ho già salito diversi scalini, quando sento afferrarmi il piede sinistro; con una mano mi tengo al piolo sopra di me, con l’altra estraggo il machete e colpisco il braccio che mi trattiene, non faccio in tempo a liberarmi da uno che ne arriva un altro. Sono nel panico, distribuisco colpi a caso, perdo la presa e il machete sparisce fra la foresta di mani che cercano di agguantarmi. Gli auricolari mi cadono dalle orecchie, ora sento i versi gutturali di quei cadaveri ambulanti che non vedono l’ora di affondare i denti nelle mie carni. Scalino dopo scalino, salgo fino a quando sono fuori dalla loro portata, ma la scala comincia a oscillare, arrivo in cima, allungo un braccio, mancano ancora una trentina di centimetri alla cima, alla salvezza: sono morto, i piccoli mattoni rossi non danno appiglio e io non so fare free climbing. La scala oscilla sempre di più, riesco a stento a rimanere in equilibrio, sono disperato, se cado giù, di me resteranno soltanto le ossa. Afferro un ciuffo di erba ma come tiro mi rimane in mano, non so più cosa fare. Sto per rassegnarmi al mio destino, quando appare una mano dall’alto, rimango per qualche istante interdetto, poi afferro quella speranza di salvezza: è calda, buon segno. Il mio salvatore mi aiuta a issarmi, prima un braccio, poi il busto, poi le ginocchia. Finalmente ci sono.

 

 

In salvo

 

Crollo sdraiato supino sull’erba a occhi chiusi, riprendo fiato, devo calmare il tremito. Nelle orecchie rimbomba il battito del cuore, da lontano arriva una voce maschile.

«Come stai, tutto bene?»

Che bello! È da tanto che non ne sentivo una, alzo una mano, chiudo il pugno e alzo il pollice.

«Va bene, prenditi il tempo che ti occorre, ora sei al sicuro!»

Il sudore mi scorre copioso sulla fronte, dopo tanta adrenalina ora sto avendo un calo di pressione. Apro gli occhi, sopra di me le grandi foglie degli alberi secolari che, indifferenti a tutto quello che accade, stormiscono nel vento pomeridiano.

Volto la testa e vedo il mio salvatore, anzi sono in due: uno mi guarda sorridendo, l’altro è serio.

«Sai, il mio amico qui aveva scommesso che non ce l’avresti fatta.»

L’altro con tutta calma ribatte: «Tecnicamente avrei vinto io, senza il tuo aiuto non ce l’avrebbe di certo fatta.»

La mancanza di fiato mi impedisce di dirgli dove si deve ficcare il suo tecnicamente. Riesco a mettermi a sedere ma aspetto ancora un attimo ad alzarmi in piedi, non sono sicuro che le gambe reggano. Prendo il telefono dal taschino e lo spengo, gli avvolgo intorno il cavo degli auricolari e lo ripongo nella tasca. Sono pronto, raccolgo le forze e sono in piedi, aspetto di stabilizzarmi, ho le ginocchia molli e la testa leggera, tendo la mano e gli vado incontro.

«Ciao, io sono Roberto. Grazie di cuore per avermi aiutato.»

Fanno un passo indietro, sono armati, uno ha un fucile da caccia, una vecchia doppietta, l’altro ha una pistola.

«Fermo lì, spogliati, per favore.»

Sono perplesso, poi capisco, vogliono vedere se ho graffi o altre ferite addosso.

«Va bene, volete essere sicuri che non sia infetto, giusto?»

Silenzio.

Levo lo zaino dalle spalle, il giacchetto, la maglietta fradicia di sudore, le scarpe, i calzini e i pantaloni; srotolo le bende che avevo messo sui polpacci, dalla caviglia, fino al ginocchio.

«Non hai lasciato nulla al caso» dice quello con la pistola e la faccia simpatica.

«Sapevo che sarebbero state le parti più a rischio. Devo levare anche le mutande?»

«No, grazie!»

«Peggio per voi, non sapete cosa vi perdete.»

Non ridono, peccato.

Quello che ha parlato si avvicina.

«Girati.»

Faccio un giro completo, si rilassa.

«Va bene, non hai riportato ferite. Io sono Marco, lui è Paolo. Benvenuto a Lucca!»

Mi rilasso anch’io, so benissimo cosa sarebbe accaduto se solo avessi riportato anche un piccolo graffio, gli porgo nuovamente la mano. Marco ha una stretta decisa, forte. Vado da Paolo e saluto anche lui.

«Ciao, Paolo l’ottimista, suppongo» questa volta Marco ride, Paolo ancora no.

Lui ha un attimo d’indecisione poi tende a sua volta la mano, ha una stretta leggera, sfuggente.

Marco intanto cerca qualcosa nelle tasche e ne estrae una barretta di cioccolato, me la offre e io resto stupito dal gesto: in un mondo dove il cibo è diventato più prezioso dell’oro, tanta generosità è incredibile.

«Prendila pure, qui dentro non ci manca nulla e a giudicare da come sei bianco ne hai proprio bisogno.»

Ringrazio, prendo la barretta di cioccolato fondente con nocciole e la mangio con gusto, la mastico a lungo per poterne godere appieno il sapore.

Marco è un ragazzo più giovane di me, alto un metro e settanta, avrà una trentina di anni, viso tondo, capelli ricci scuri, occhi castani, naso carnoso e un accenno di barba. Indossa dei comodi pantaloncini corti neri, una canottiera di colore canna da zucchero, al polso un vistoso orologio d’oro e ai piedi delle ciabatte infradito. Paolo è alto come me, sulla cinquantina, capelli corti castani, viso lungo e magro, occhi stretti, scuri e incavati, naso aquilino, bocca piccola e orecchie sporgenti, sbarbato di fresco; io invece ce l’ho folta. Lui indossa dei pantaloni di jeans lunghi fino al ginocchio e una t-shirt bianca, ai piedi porta scarpe da ginnastica di marca.

In un altro tempo potevano essere due semplici turisti che si godevano una passeggiata all’ombra degli alberi, ora sono due sopravvissuti che se la cavano alla grande.

«Ti è andata bene, non veniamo mai sopra le mura, tanto non c’è nulla da vedere, noi di solito stiamo giù in strada e controlliamo le porte per vedere che tengano, quando abbiamo sentito gli scoppi ci siamo incuriositi e siamo saliti giusto in tempo per vedere la tua corsa: è stata una gran bella impresa» dice Marco mentre mi rivesto.

La maglietta la cambio, è zuppa di sudore, anche il giacchetto lo metto nello zaino, ora non dovrebbe servire. Le bende le tiro di sotto.

«Senza il tuo aiuto sarebbe andata a finire in tragedia. In quanti siete sopravvissuti?»

«Siamo rimasti centocinquanta persone.»

«Solo?»

Guardo i tetti delle case all’interno della cerchia muraria, poi gli zombie sotto di noi che hanno ricompattato le fila.

Sono andato a cacciarmi in una comoda grande trappola.

 

 

Lucca

 

«Quanti fuochi hai acceso?» domanda Paolo.

«Due!» rispondo. «L’altro è vicino allo stadio. Volevo separare gli zombie alla svelta e attirarli in due direzioni opposte. Mi sembrava una buona idea.»

«Ottimo espediente. Andiamo a vedere!» dice Marco. «Vuoi venire con noi? Finiamo il giro e dopo si torna alla base.» Annuisco. «Dovremmo controllare la porta qui sotto, ma come hai visto è murata, quindi facciamoci una passeggiata e scendiamo alla prossima.»

Ci incamminiamo.

«Com’è la situazione fuori?» chiede Paolo.

«Pessima! Io sono venuto da Porcari in bicicletta e non ho visto nessuno vivo. Sono stato qui fuori circa una settimana, mentre cercavo un modo per entrare, ho fatto anche un giro completo della città ma ho visto solo una persona viva, che non si è fatta avvicinare. Ho visto anche una ragazza con un cane, lei è stata divorata dagli zombie sotto il mio rifugio, ha fatto una brutta fine. Qui come siete messi?»

«Bene! Cibo e medicinali non ci mancano, finché riusciamo a tenerli fuori.»

Da dietro Paolo si fa sentire: «Tanto, prima o poi riusciranno a entrare.»

Cavolo, questo è proprio ottimista di natura!

«Come fai per tenere carico il cellulare?» mi chiede Marco.

«Ho un carica batterie a pannello solare.»

«Ne avevo sentito parlare, ma non credevo che funzionassero sul serio.»

Passiamo il baluardo San Pietro dove sopra c’è la Casa del fanciullo, l’orfanotrofio, e ci dirigiamo verso porta Elisa. Da qui si vede bene la palazzina che avevo scelto come dimora, la scuola e lo stadio, si vede anche il fuoco che ancora divampa fra le auto. Ogni tanto si sente ancora uno scoppio, intorno al rogo si sono riuniti centinaia di zombie, sono lì imbambolati, come falene attratte dalla luce, sono perplessi, sentono il rumore ma non vedono potenziali prede. Una folata di vento fa cambiare direzione alle fiamme che avvolgono tre zombie che si erano avvicinati troppo, i vestiti che indossano si incendiano trasformandoli in torce, loro si contorcono un po’ poi cadono a terra e rimangono immobili.

«Allora qualcosa sentono?» commenta Marco.

«Non so! Forse un riflesso condizionato, la paura atavica del fuoco» risponde Paolo.

«Tre in meno! La tua trappola attira zombie funziona bene, hai escogitato un buon sistema, complimenti!» dice Marco.

«Grazie!»

«Avevi visto i tuoi vicini?» Paolo indica lo stadio.

Io non capisco cosa voglia dire, poi li vedo: fra la gradinata e la curva c’è uno spazio da cui si può vedere uno spicchio di campo di gioco; alle volte quando passeggiavamo sulle mura la domenica e la Lucchese giocava in casa si poteva vedere un po’ di partita. Ora invece di vedere il prato verde del campo di gioco, si vedono centinaia di zombie che si muovono in mezzo a grandi tende militari.

«Negli ultimi giorni, quando il contagio era al culmine, era diventato un ospedale da campo, poi da ospedale è diventato un ghetto per coloro che avevano contratto il virus» continua Paolo. «Venivano scaricati e abbandonati in attesa di trasformarsi o di essere divorati da quelli già trasformati.»

«Dai, finiamo il giro che ti porto a conoscere il resto del gruppo. Oggi Paolo e io abbiamo il compito di controllare la tenuta delle porte.»

Imbocchiamo la discesa vicino alla Casa del Boia.

«Avete chiuso anche il tunnel del fosso?» domando.

«Certo, è stato un lavoro duro, abbiamo usato alcuni cancelli, che abbiamo saldato e poi murato. Per fortuna non c’erano zombie nell’alveo a darci fastidio. Dalla parte opposta invece non serviva, dove il fosso si incanala sotto le mura c’è già una grata.»

«Allora ho fatto bene a non provare a entrare da lì.»

«Direi proprio di sì» mi dà ragione Paolo.

Ci incamminiamo verso porta Elisa, in questa strada ogni mercoledì e sabato era allestito il mercato cittadino, ci venivo spesso con Laura, lei amava fermarsi ai banchi a guardare la merce, io l’odiavo.

Marco deve aver notato la mia aria assente.

«Tu chi hai perso?»

«Mia moglie e forse anche mio figlio» rispondo.

«Non sei l’unico, tutti hanno perso qualcuno di caro» fa notare Paolo.

«Paolo, falla finita» lo riprende l’altro. «Perché, forse tuo figlio?»

«Perché era a Roma quando la situazione è peggiorata, i trasporti in uscita dalla capitale erano stati bloccati dal cordone sanitario, poi sono cadute anche le linee telefoniche e non ho più avuto sue notizie.»

«Capisco! Fatti coraggio, come ha detto Paolo tutti noi abbiamo avuto delle perdite familiari, vedrai che qui troverai una nuova grande famiglia: siamo un gruppo affiatato, anche se ci sono alcuni tipi strani» e strizza l’occhio, accennando con la testa in direzione del compagno dietro di lui, che ribatte: «Molto spiritoso.»

Abbozzo un sorriso.

Controlliamo che anche la sortita del bastardo sia ben chiusa, il solido cancello di ferro è stato serrato con catena e lucchetto.

«Chi ha fatto chiudere le porte cittadine?» domando ancora.

Questa volta risponde Paolo con la sua voce roca.

«L’idea fu dell’amministrazione comunale. Il sindaco fece controllare se gli antichi battenti in legno delle porte fossero utilizzabili per chiuderle e, se non lo fossero stati, aveva dato ordine di murarle. In seguito, con il peggiorare della situazione, fu ordinato di chiuderle tutte, sortite comprese. Fu il caos, molte persone non volevano essere chiuse dentro e altre non volevano rimanere fuori. Alla fine fu deciso di lasciare libera scelta e di tenere aperta solo porta Sant’Anna per entrare e porta San Pietro per uscire. Fu il caos totale, gli zombie erano sempre più numerosi, più ne abbattevano più ne arrivavano. La viabilità esterna era bloccata e le persone potevano uscire o entrare solo a piedi. L’esercito aveva creato un perimetro difensivo esterno, ma giorno dopo giorno furono costretti ad arretrare. Porta San Pietro fu chiusa e riuscirono a tenere aperta l’altra solo per qualche altro giorno. La pressione degli zombie aumentava, l’esercito fu richiamato e i volontari armati non riuscirono a garantire un’adeguata sicurezza, così alla fine anche l’ultima via di comunicazione con l’esterno fu sigillata.»

«Dopo la chiusura» aggiunge Marco, «avevano messo delle sentinelle sui baluardi, se arrivava qualcuno calavano delle scale e lo facevano salire. La presenza degli zombie però aumentava sempre più, di giorno in giorno, impedendo di fatto alle persone di avvicinarsi. Sei l’unico che sia riuscito a entrare da allora.»

«Pensavo ci fossero molti più sopravvissuti in città.»

«Purtroppo il contagio ha continuato a mietere vittime fra le morti causate dal virus e quelle causate dagli attacchi da parte degli zombie, che sono tuttora dentro, siamo rimasti in pochi.»

«Ci sono ancora zombie qui?» chiedo preoccupato.

«Purtroppo sì.» È sempre Marco a rispondermi. «Ci sono quelli che noi chiamiamo girovaghi, ma contiamo di eliminarli tutti, poi dentro i palazzi chissà quanti ce ne sono ancora: ogni tanto qualcuno trova la via per uscire in strada e diventa un girovago, per questo facciamo le ronde sempre in due. Comunque ci sono pattuglie apposite che pensano alla disinfestazione.»

Passiamo accanto a un parco giochi, fra le giostre non ci sono bambini gioiosi, tenuti sotto controllo da mamme e nonne apprensive, ma alcune galline bianche.

«Quelle dove le avete trovate?»

«Erano in alcune gabbie nel retro del furgone di un macellaio, quando le abbiamo scoperte erano quasi morte di fame; si sono riprese bene, sono veloci e furbe, al contrario di quanto si dice, non ne abbiamo persa neanche una, ma non fanno molte uova, saranno gli spaventi che prendono quando capita qui uno zombie.»

«Senza un gallo sono destinate all’estinzione» sentenzia cupo Paolo. «La stessa fine che farà la razza umana.»

In effetti non gli posso dare torto, anche Marco tace.

Arriviamo a porta Elisa, anche questa è sicura, gli ingressi pedonali sono murati e il varco centrale è sbarrato dall’antico portone. Il grattare delle unghie sul legno dei battenti mette i brividi, penso a quello che ha detto Paolo poco prima, loro hanno la costanza e tutto il tempo per cercare di aprirsi un varco, scheggia dopo scheggia ci possono anche riuscire.

«Ottimo, anche qui tutto a posto. La sortita Cairoli è murata, quindi inutile controllarla» conclude Marco. «Ora andiamo alla base, così ti presentiamo. Preparati a una lunga serie di domande, saranno tutti curiosi di sentire la tua storia.»

Mentre percorriamo via Elisa, diretti in centro, passiamo accanto alla centralina di rivelazione dell’inquinamento cittadino, inutile monumento a una civiltà che ormai è scomparsa, ora non ci saranno più problemi di polveri sottili.

Vicino a porta San Gervasio e Protasio c’è un’antica fontana di marmo, da cui sgocciola dell’acqua.

«Marco, avete acqua potabile?»

«Per ora l’acqua non ci manca, ne abbiamo migliaia di bottiglie e per bere usiamo quella da questo fosso prendiamo solo l’acqua che usiamo per lavare le pentole, la disinfettiamo con cloro e la bolliamo prima dell’uso, la usiamo anche per i bagni delle camere. L’azienda che controllava l’acquedotto aveva interrotto, già prima della catastrofe, l’afflusso di acqua alle fontane a causa della prolungata siccità. A Lucca l’acqua non è mai mancata, speriamo che con l’inverno e le piogge abbondanti le fontane collegate all’acquedotto del Nottolini riprendano vita.»

«Dove vi siete sistemati?»

«Siamo alloggiati nell’albergo Universo in piazza del Giglio, è in un’ottima posizione strategica, con sole due sentinelle riusciamo a controllare tutte le vie d’accesso alla piazza, così abbiamo la possibilità di vedere per tempo se arrivano degli zombie.»

«Perché non transennate le vie che portano alla piazza? In questo modo sarebbero più sicure.»

«Lo abbiamo fatto, per un periodo, ma ci sono molte squadre che vanno avanti e indietro tutto il giorno e c’era sempre qualcuno che dimenticava aperto un varco: fidati questo è il modo più sicuro. Vedrai che il nostro gruppo ti piacerà, le donne sono in netta maggioranza» dice Marco facendomi l’occhiolino.

«Non ti fare riconoscere subito» lo rimprovera Paolo, ma lui continua senza dare peso all’interruzione.

«Purtroppo non ci sono ragazzi e neanche anziani, a loro il contagio non ha dato scampo, comunque fra poco saremo arrivati e vedrai con i tuoi occhi.»

Siamo in piazza Bernardini, negli stalli del parcheggio ci sono ancora alcune macchine, stiamo per imboccare via Santa Croce.

«Perché non passiamo da via del Gallo?»

Stavolta è Paolo a rispondere.

«Perché è pericoloso, troppo stretta e troppe zone scure, meglio passare da qui; dobbiamo lavorare ancora tanto prima di rendere sicure queste strade, come ti ho detto prima, non abbiamo idea di quanti ce ne siano ancora: ti sei accorto che durante il giorno preferiscono stare al buio o in zone d’ombra?»

«Sì, l’ho notato anch’io. Ancora una cosa, poi giuro che non vi farò più domande fino a quando saremo arrivati: ho visto che solo pochi negozi sono stati saccheggiati, anche qui ci sono cose che sono state abbandonate durante la fuga, però in confronto a quello che c’è fuori non è nulla, non ci sono neanche cadaveri.»

Paolo e Marco si guardano, poi il secondo risponde.

«All’interno delle mura, la sicurezza è stata mantenuta fino all’ultimo dalle forze di polizia e dai militari, dopo c’è stato un breve periodo d’anarchia, quando l’esercito se n’è andato, che però ha causato pochi danni, in seguito si è formato un comitato cittadino che ha ristabilito l’ordine; ronde di volontari pattugliavano la città per far sì che non ci fossero razzie, io ero uno di quelli. Ne ho viste tante, abbiamo dovuto anche uccidere e non tutti erano zombie. Quando le acque si sono calmate, per prima cosa abbiamo provveduto a rimuovere i cadaveri dalle strade per evitare infezioni.»

Proseguiamo in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri. Guardo i negozi, la maggioranza sono integri con ancora la merce esposta in vetrina, i manichini dietro il vetro ci osservano con le loro facce inespressive, indossano maglie, pantaloni e altri accessori che nessuno comprerà più.

Proseguiamo per piazza San Michele, poi svoltiamo in via Beccheria e arriviamo in piazza Napoleone. A sedere su una sedia all’ombra di uno dei grandi platani che delimitano la piazza su tre lati c’è una donna che, appena ci vede arrivare, si alza con una certa difficoltà.

«Ciao, lui chi è? Dove l’avete trovato?»

«Ciao Lucia, lui è Roberto. Ti sei persa un bello spettacolo, è riuscito a fare una cosa incredibile! Ha fatto allontanare gli zombie da sotto le mura e poi è salito con una scala.»

Lucia ci guarda dubbiosa.

«Davvero? Mi state prendendo in giro?»

«Secondo te? Pensi che sia piovuto dal cielo?» replica sgarbato Paolo.

«Sempre il solito scorbutico, vero?» risponde piccata lei.

Intervengo: «Non è stata quella grande impresa che dicono. Se non fosse stato per l’aiuto di Marco, ora sarei un mucchietto di ossa animate. Comunque ciao, io sono Roberto» e le tendo la mano.

Lucia è una donna alta, un po’ in sovrappeso, avrà una sessantina di anni, ha un bel viso rubicondo su cui spicca un grande sorriso, occhi piccoli di colore scuro, con delle borse sotto e naso carnoso. Corti riccioli rossi le incorniciano la testa tonda, indossa una gonna lunga, ciabatte da doccia blu ai piedi, una canottiera grigia con grosse macchie di sudore sotto le braccia e sotto l’abbondante seno.

Il sorriso le si allarga ancora di più e stringe la mia mano con una certa forza; nell’altra mano ha una picca medievale, si accorge che la sto guardando.

«Questa? È solo per figura, non saprei neanche come usarla, se per caso arrivasse uno di quei cosi.» Alza il braccio, al polso ha un fischietto assicurato con un cordino scuro. «Soffio qui dentro con tutto il fiato che ho e batto in ritirata.»

Marco la interrompe.

«Dov’è Francesca?»

«Dove vuoi che sia? È alla sua solita postazione, non capisco dove quella ragazza trovi la forza e la volontà di fare tutto quello che fa.»

«Vieni» rivolto a me, «ti porto da lei.»

«Roberto, ci vediamo stasera, ci devi raccontare tutto» mi saluta allegra Lucia, ha una voce squillante.

Ricambio il saluto e lei ritorna a sedere sulla sua sedia all’ombra, raccoglie un ventaglio da terra e prende a farsi vento.

Ora la piazza è sgombra, non ci sono più le tribune e nemmeno il grande palco del Summer Festival. L’ultima edizione si era conclusa poche settimane prima dello scatenarsi del virus. Ero andato una sera con Laura a sentire Elton John… sì, a sentire, perché il biglietto per entrare costava troppo e noi ci siamo accontentati di ascoltarlo da lontano.

Arriviamo all’incrocio con via del Giglio, dalla parte opposta della piazza, vicino al portone del Cortile degli Svizzeri c’è un’altra sentinella che ci saluta con la mano, anche quella è una donna, Marco risponde al saluto, Paolo no. Sento un rumore, Marco indica una siepe piantata dentro delle fioriere a una ventina di metri dalla porta d’ingresso.

«Là dietro c’è il generatore, con quello produciamo la corrente necessaria per avere un po’ di luce e per mantenere in funzione il congelatore della cucina del ristorante.»

«Almeno finché continuiamo a trovare la benzina» precisa Paolo.

Entriamo nell’hotel, le due grandi porte a volta di legno bianco e vetro sono entrambe spalancate. Nella hall c’è un grande specchio al muro e un tappeto persiano sul pavimento, due divanetti da due posti sono vicino alle pareti e un grande lampadario in vetro di murano pende dal soffitto, decori verdi abbelliscono tutta la stanza. Vicino a un tavolo ingombro di fogli, c’è una ragazza in piedi; è alta, ha i capelli rossi lunghi fino alle spalle, una maglietta a maniche corte blu, pantaloncini corti di jeans che mettono in mostra le belle gambe e ai piedi delle scarpe da ginnastica. In mano ha una penna, la tiene fra le labbra socchiuse che fanno intravedere i denti bianchi; la sta mordicchiando sovrappensiero, mentre studia delle carte che tiene con l’altra mano: è così concentrata che non si accorge della nostra presenza.

Marco si avvicina e si schiarisce la gola.

«Ehm… Francesca?»

Lei alza la testa, spalanca gli occhi e mi fissa stupita. È molto bella, occhi celesti, un delizioso nasino all’insù, labbra rosee e delle piccole efelidi sul viso.

«E tu chi sei?»

Ha una bella voce. Marco gli fa un veloce riassunto.

«Davvero? Non pensavo che fosse possibile, con tutti quei bastardi che ci circondano…» Per un attimo torna con gli occhi ai fogli. «Dovete scusarmi ma ora sono impegnata, devo finire i turni e ho una grana con la riserva di benzina. Stasera alla cena ti presenterò agli altri, ok? Marco, sistemalo in qualche stanza libera e provvedi alle sue necessità, per favore.» Poi si rivolge a me. «Non sei mica un medico o un infermiere? O elettricista o altro?»

«No, mi dispiace, sono capace solo di fare qualche piccolo lavoretto, non so se posso essere utile.»

«Ok.» Si gira, ritornando a studiare i suoi fogli

borbottando.

«Come?» chiedo.

«Come cosa?» risponde.

«Niente… Credevo che avessi detto qualcosa.»

«No, no…»

«Ah, scusa!»

Mi sembrava avesse mormorato qualcosa come: «Inutile, come tutti i maschi», ma forse ha ragione lei, avrò capito male.

Stiamo per salire le scale, quando sentiamo arrivare dall’esterno delle grida e dei fischi prolungati, tutti si precipitano fuori, io li seguo. Stanno arrivando delle persone, una di queste è la sentinella che ci ha salutato prima, vicino a lei ci sono un ragazzo alto con gli occhiali e una ragazza dai capelli biondi lunghi; stanno sorreggendo una donna, ha la testa reclinata, i capelli lunghi castani le ricadono in avanti, sta singhiozzando. Procedono piano, lei strascica i piedi. Arriva anche Lucia con un’andatura zoppicante.

Francesca è la prima ad avvicinarsi: «Cos’è successo?»

«È stata aggredita» risponde il ragazzo.

«Come? Forza portatela dentro, fatela sdraiare.» Poi si rivolge alle sentinelle: «Voi tornate ai vostri posti e state con gli occhi ben aperti, forse ce ne sono degli altri.»

Marco si avvicina alla ragazza e si offre di prendere il suo posto, lei lo allontana con la mano.

Quando ci passano davanti vediamo che la donna ha molti graffi sulla schiena e un morso al collo. Ci guardiamo, Marco ha gli occhi lucidi, Paolo è impassibile, Lucia scuote la testa, sappiamo benissimo che è condannata.

Li seguiamo in albergo, Francesca si dirige a una porta sulla destra della hall e fa entrare i ragazzi, noi aspettiamo fuori. Paolo si allontana senza salutare e sale le scale.

Poco dopo escono quelli che l’avevano soccorsa e Francesca si affaccia.

«Marco, dammi la pistola, per favore» rientra e chiude la porta.

Noi ci sediamo sui divanetti. I ragazzi che erano con lei si stringono in un abbraccio di conforto, lei ha delle grosse lacrime che le scendono lungo le guance, lui le accarezza i capelli. Un colpo di pistola rompe il silenzio e ci fa sobbalzare, ora i due ragazzi si disperano, lei si porta le mani a coprire il viso, lui scuote la testa ripetendo: «È colpa mia, è colpa mia.»

Francesca esce dalla stanza, va alla sua scrivania, prende la bottiglia e si versa dell’acqua in un bicchiere, beve, le trema la mano, poi va da Marco e gli riconsegna la pistola, si avvicina ai ragazzi e accarezza loro la testa.

«Scusa, è solo colpa mia, non volevo…» prova a dire lui.

«Non è vero è anche colpa mia» lo interrompe la ragazza, mentre si asciuga le lacrime con il dorso della mano.

Francesca li tranquillizza.

«Prima calmatevi e andate a riposarvi, ci sarà tutto il tempo per parlare.»

Li aiuta ad alzarsi e li accompagna alle scale.

I ragazzi le salgono tenendosi per mano. Marco mi fa segno di seguirlo, Francesca ci fa un mesto sorriso. Noi saliamo al secondo piano.

«Per ora ti sistemo in una singola, poi in futuro, quando ti sarai ambientato, se vorrai, ti trasferirai in una doppia o tripla, a seconda dei gusti.»

«Funziona così?»

«Se vuoi, sì. Come ti ho detto le donne sono la maggioranza e non disdegnano la compagnia maschile, anche solo per una notte. Devi scusare Francesca, è una brava ragazza, alla mano e simpatica ma è sempre sotto pressione. Le abbiamo lasciato volentieri il comando, si prende delle responsabilità che nessuno vorrebbe avere, come hai potuto vedere prima, inoltre organizza i turni di guardia, quelli di disinfestazione, quelli di approvvigionamento, l’inventario dei viveri… Quando ti sei sistemato, scendi giù che ti faccio fare un giro.» Si sentono cinque rintocchi di campana. «Incredibile! Gianluca e Giulio sono riusciti a far funzionare l’orologio della torre, quei due sono dei geni.» Controlla l’ora sul suo Rolex. «È anche preciso! Ho visto che non hai un orologio, se vuoi te ne posso dare uno, io ne ho a decine.»

«No grazie, non lo porto. Scusa ma il suono della campana non attirerà tutti gli zombie della zona?»

«Se riescono a localizzarne la fonte, in mezzo a tutti i vicoli, tanto di cappello, comunque meglio là che qui. Ci vediamo dopo.»

Marco se ne va e chiude la porta.

Rimango solo nella stanza dipinta di un verde salvia con fregi e decori chiari vicino al soffitto, il letto è rifatto con un copriletto colorato, a fianco un comodino con un abatjour, nell’angolo uno scrittoio in legno con sopra il televisore a led e sotto il frigobar, ormai reliquie di un tempo passato. Incassato nel muro un armadio a due stagioni in legno intarsiato e lucido con sotto dei cassetti. Butto lo zaino su una sedia e apro la finestra, dà sulla piazza del Giglio: si vede la statua e il teatro, splendida vista. Mi sdraio sul letto pulito, quanto mi mancava un materasso, dopo giorni passati a dormire sul pavimento del mio rifugio. Quello che ci vorrebbe ora è la possibilità di fare una doccia; vado in bagno e provo ad aprire il rubinetto del lavandino, ma non scende neanche una goccia d’acqua: era chiedere troppo. Ritorno in camera, metto lo zaino nell’armadio, decido di scendere giù visto che tanto non ho nulla da fare.

Arrivo nella hall, non c’è nessuno e rimango perplesso, vado verso le porte per uscire in piazza e vedere se c’è qualcuno, quando da una porta laterale sbuca Marco, in mano ha un panino con prosciutto e formaggio.

«Già sceso? Se hai fame faccio un panino anche a te.»

«No grazie! Ti volevo chiedere se c’è la possibilità di lavarsi…»

Marco mi prende per il braccio e usciamo dall’albergo.

«Certo, i nostri tecnici hanno scoperto un deposito d’acqua sotto il palazzo che ospita i bagni pubblici, durante la notte si riempie d’acqua, ci deve essere una vecchia condotta ancora funzionante, così hanno portato delle cisterne nell’appartamento sopra i bagni e la mattina ci pompano dentro l’acqua dal deposito. Le cisterne sono collegate alle docce così la sera riusciamo a darci una lavata molto veloce. Sono in gamba, senza di loro sarebbe più dura.» Si guarda intorno. «No, ora non sono ancora rientrati, te li presenterò questa sera.»

Andiamo all’angolo di via del Giglio.

«Lo sai dove sono i bagni pubblici? Prima di arrivare in piazza San Michele, giri a sinistra in via Pescheria e li trovi. Ti procurerò un secchio d’acqua per la notte, perché in camera non c’è, quando è vuoto lo puoi riempire dalla cisterna che è dietro la cucina e lo porti su, ti servirà per lavarti e alla bisogna lo usi al posto dello sciacquone. Vedo che hai ancora il coltello… La zona qui è sicura, ma fai bene a essere previdente. Non ti accompagno perché ho alcune questioni in ballo, prima che rientri l’aguzzina. Ah, se vuoi fare shopping ci sono dei negozi lungo la via, prendi quello che ti pare, pago io!» Fa una bella risata e ritorna all’albergo.

Gli volevo dire che so dove sono i bagni pubblici, ma non mi ha lasciato il tempo per parlare. Mi incammino, passo la mano sul fodero, non mi ero accorto di avere ancora il coltello alla cintura, ormai è diventato parte di me. Passo vicino alla postazione di Lucia che senza alzarsi dalla sedia mi domanda: «Dove vai di bello? A farti una doccia? Verrei volentieri a fare la guardia al tuo bel culetto, ma sono in servizio» fa una risata divertita, e io con lei.

La saluto e proseguo, arrivo al negozio di abbigliamento all’angolo di via Vittorio Veneto, entro, esploro la zona e una volta accertato che non ci siano pericoli, cerco qualcosa della mia misura: sugli scaffali ci sono maglie e magliette, calzoni, camicie e altri capi di vestiario. Rimedio una t-shirt, un paio di jeans e appena posso devo trovare anche della biancheria intima.

Arrivato ai bagni trovo la porta aperta ed entro; il locale è ampio con il soffitto alto, in terra e alle pareti mattonelle di ceramica bianche. Una volta era diviso fra la zona degli uomini e quella delle donne, ora è un locale unico, a sinistra ci sono i lavandini e sopra un lungo specchio appeso alla parete, in fondo ci sono le docce: sono tutte libere tranne una che è occupata, a giudicare dalla voce è una donna, sta cantando a squarcia gola Albachiara. Prendo una salvietta dal mobile, ci sono anche delle saponette, flaconi di shampoo e doccia schiuma, ne approfitto. La misteriosa proprietaria della voce ha finito, apre la porta ed esce, si sta avvolgendo un asciugamano intorno al corpo, appena mi vede lancia un urlo, lo lascia cadere, si gira, prende una pistola dai pantaloncini, che sono appesi a un attaccapanni al muro, e me la punta contro impugnandola con entrambe le mani.

Io alzo le mie.

«Ehi ferma non sparare!»

«Cazzo! Non sei uno zombie!»

«No! E se spari non lo diventerò neanche.»

Si rilassa e abbassa la pistola.

«Chi sei? Non ti ho mai visto.»

Abbasso le mani.

«Sono Roberto e sono appena arrivato.»

Resta stupita, raccoglie l’asciugamano e si copre.

«Io sono Anna, scusa, manca poco che mi prenda un infarto, non ti avevo sentito entrare.»

«La porta era aperta… e stavi cantando, anche molto bene direi.»

Le sue labbra si schiudono in un timido sorriso. È una bella ragazza, avrà una ventina di anni, longilinea, formosa nei punti giusti, viso ovale, capelli corti biondi, occhi grandi castani, un nasino sbarazzino e delle belle labbra sensuali: non è una bionda naturale.

«Scema io, ho scordato di chiuderla, sono venuta a lavarmi in tutta fretta perché ero sporca di sangue e altre schifezze di zombie.»

Posa la pistola sul bordo del lavandino.

«Se non ti dispiace la devo fare anch’io.»

Entro nella doccia e chiudo la porta. Tolgo i vestiti sporchi che indosso da giorni, apro il rubinetto, un flebile getto d’acqua esce dal docciatore; maremma maiala quanto è fredda! Io non la sopporto, anche in estate facevo la doccia tiepida. Devo lavarmi due volte per riuscire a togliermi di dosso lo sporco accumulato in queste settimane e per avere ragione dei capelli ho bisogno di fare tre shampoo. Una volta finito mi asciugo e mi rivesto. Esco, non c’è nessuno, uso lo spazzolone e lo straccio per ripulire il piano doccia, l’asciugamano lo ripongo in un cesto, dove c’è quello che ha usato la ragazza, ottima organizzazione. Rimetto al suo posto anche la saponetta e lo shampoo, prendo i vestiti vecchi e li arrotolo, li metto sotto il braccio, infilo il coltello nella tasca posteriore dei pantaloni ed esco in strada, lavato, profumato e con vestiti nuovi: fino a poche ore fa lo credevo impossibile.

«Ciao!»

Stavolta sono io che sobbalzo, Anna si mette a ridere e porta la mano alla bocca. Deliziosa, penso.

È appoggiata al muro appena fuori dall’ingresso dei bagni, indossa dei calzoncini molto corti di jeans, una maglietta bianca, su cui è disegnato un cucciolo che guarda da sopra i suoi seni, e delle ciabatte infradito. Al collo ha una collana d’oro, un anello a ogni dito, le unghie delle mani e dei piedi ben curate smaltate di rosa, le gambe depilate, ha i capelli bagnati che le ricadono sulla fronte: la preferivo prima, ma è molto bella anche vestita.

«Ti ho aspettato, facciamo la strada assieme? Così ci conosciamo.»

«Volentieri! Vi siete organizzati bene, il bagno è ben tenuto, non manca nulla.»

«Ti piacerà meno quando sarà il tuo turno di lavare gli asciugamani. Ognuno pensa ai propri vestiti e alla camera, mentre la pulizia del bagno è in comune. Prima di rientrare, devo andare per negozi, sono a corto di biancheria, vuoi accompagnarmi?»

«Molto volentieri, serve anche a me, questi dove li posso posare?» e indico i vestiti che ho sotto il braccio.

«Li puoi lasciare qui, da come puzzano non li prenderà nessuno, oppure puoi buttarli come ho fatto io con i miei.» In effetti non emanano un buon profumo, così li lascio su un tavolino di un ristorante che è vicino al locale dei bagni.

Anna si scosta dal muro con un movimento fluido, quasi felino, e mi precede. Nella tasca posteriore dei pantaloncini ha messo la pistola. Si ferma.

«Stai guardando il mio culo o la pistola?»

«Sì… No… Volevo dire la pistola.»

La estrae dalla tasca e me la porge, nella sua mano sembrava normale, quando la prendo nella mia è piccola.

«È una vecchia Beretta calibro 7,65, era di mio padre, la teneva avvolta in un panno dentro una scatola da scarpe insieme a un pacchetto di munizioni, ora sono rimasti solo tre proiettili. Ho visto che tu usi il coltello.»

Lo prendo e glielo porgo, lei lo estrae dal fodero e passa un dito lungo la lama di acciaio di venti centimetri.

«Non è affilato, sembra uno di quelli che vendono i negozi per turisti. Sei riuscito a eliminarli con questo?»

Rimango stupito dalla sua competenza.

«Sì! L’importante e la punta, mica devo affettarli.»

Sorride, me lo restituisce e riprendiamo a camminare.

«Roberto, da dove sei sbucato fuori?» mi domanda dopo qualche passo.

Gli faccio un veloce riassunto di come sono riuscito a entrare in città e quando concludo si gira verso di me stupita.

«Mi stai prendendo in giro, vero?»

«Sì! In verità ho giocato a nascondino, però visto che nessuno mi cercava non era divertente, quindi mi sono auto dichiarato vincitore e sono uscito.»

Scoppia a ridere, mi dà una spinta con la spalla e finisco contro il muro.

«Sei simpatico, avevo bisogno di fare una bella risata!»

Parlando siamo arrivati in via Fillungo, la via principale di Lucca, la via dello struscio serale. Sono sempre più stupito, qui i negozi sono pressoché intatti.

Anna entra in un negozio di una nota catena di intimo e si lancia subito sugli espositori, io controllo che non ci siano sorprese, poi vado a scegliere mutande e calzini.

«Vado a provare questi, fai la guardia» mi dice.

«Va bene.»

Sento che tira la tenda del camerino, io continuo a cercare dei calzini della mia taglia.

«Questo, mi sta bene?»

Mi giro, lei è sulla porta della cabina, indossa un due pezzi di color lilla, fa un giro su se stessa, sul dietro non si vede il colore degli slip: resto senza parole.

«Non ti piace? Aspetta» e richiude la tenda, per poi riemergere dopo poco indossando un completo bianco, trasparente e di dimensioni ancora più ridotte. «Preferisci questo?»

Ancora una volta, faccio scena muta.

«Hai perso la lingua? Sai che ti dico, nel dubbio li prendo entrambi. Arrivo subito.»

Imbarazzo, ecco quel che provo… Non sono così vecchio e che non sono abituato a certe cose.

Anna esce dal camerino.

«Io ho quasi finito, prendo ancora due cose e andiamo. Tu sei pronto?»

«Sì, sì…» Cristo, non riesco neanche a parlare.

Si avvicina.

«Prendi un sacchetto, per favore!»

Vado dietro il bancone e trovo le buste, ne prendo una anche per me; c’è anche un’agenda, ci penso un attimo, poi prendo anche quella. Il registratore di cassa è aperto, gli scomparti sono vuoti.

«Qualcuno, oltre alla biancheria si è preso anche i soldi.»

«Sarà stato il proprietario del negozio prima di lasciare la città, un ladro o uno di noi. C’è chi si è fatto una collezione di pietre preziose, chi di oro, chi di orologi e chi preferisce ancora il denaro. Io preferisco i gioielli, prima non me li potevo permettere, ora quando capita, se vedo qualcosa che mi piace lo prendo. Tu cosa preferisci?»

«Amo leggere, libri e fumetti.»

«Allora non avrai problemi, le librerie che ho visto sono ancora intatte.»

Ci credo, chi ha come priorità di prendere dei libri prima di scappare?

Usciamo.

«Sei appena arrivato, avrai bisogno di tutto, vieni con me, qui vicino troveremo le scarpe e più avanti c’è un negozio di abbigliamento di marca. Devi sapere che la sera ci troviamo tutti per un aperitivo e dopo la cena si balla per cui ci piace vestirci elegante. All’inizio non era così, la cena era un mortorio, eravamo stanchi di combattere contro gli zombie e demoralizzati, perché sapevi che potevi essere il prossimo a contrarre il virus. Così, appena finivamo di mangiare, ci isolavamo nelle camere. Allora io, insieme a delle mie amiche, ci siamo dette: “Se dobbiamo morire, almeno godiamoci la vita fino all’ultimo giorno e moriamo da strafighe.”

Una sera ci siamo lavate, a quei tempi il bagno pubblico era in fase di allestimento, ci siamo messe in tiro e truccate e quando siamo scese in sala la gente è rimasta sbalordita. Dopo cena abbiamo messo della musica e invitato la gente ad alzarsi e ballare; da allora è diventata una consuetudine, è un momento di relax in cui stacchiamo da tutto quello che ci circonda. Detto questo, se vuoi, sarò la tua personal shopper!»

Passiamo un’ora a fare shopping, cosa che ho sempre odiato; lei sceglie i capi di vestiario e io li provo. Alla fine siamo carichi di buste, Anna mi prende a braccetto e torniamo verso l’albergo. Passeggiamo nella via che ho percorso migliaia di volte con Laura, cerco di staccarmi da Anna, ma lei non demorde. Quando passiamo davanti alla torre delle ore, l’orologio batte sette rintocchi. Incomincio a ridere, non riesco a controllarmi, la risata diventa sempre più isterica. Anna si scosta per guardarmi preoccupata.

«Che ti prende ora?»

Respiro profondamente per calmarmi.

«Ho colto il paradosso di questa situazione: io a braccetto con una bella ragazza, dopo avere fatto acquisti in via Fillungo, al centro di una città quasi fantasma, circondati da morti viventi, in una nazione spopolata di un mondo morente. Tu hai mai usato Google Earth?» Annuisce. «Ecco, è come se la visuale zoomata partisse da noi e poi si allontanasse fino a contenere il pianeta intero: è comico e tragico allo stesso tempo.»

«La situazione è più tragica che comica, ma ora non ci pensare, stasera alla cena conoscerai gli altri membri del gruppo e dopo vedrai che ci divertiremo, puoi starne certo.»

Arriviamo all’incrocio con via Roma e giriamo a destra.

«Non so quanta voglia di fare festa ci sarà stasera» riprendo il discorso.

«Perché?» domanda perplessa.

«Non sai di quella ragazza che è stata aggredita da uno zombie?»

Si ferma, è spaventata.

«No, non lo sapevo, io ero con una squadra a disinfestare la zona di San Frediano, ero sporca e sono venuta via prima per fare la doccia, gli altri andavano al deposito. Come si chiama la ragazza?»

«Non lo so, mi dispiace, era con un ragazzo con gli occhiali e una ragazza dai capelli biondi; quella ferita aveva i capelli lunghi castani, sono arrivati dal Cortile degli Svizzeri.»

Lascia cadere i sacchetti in terra, porta le mani a coppa davanti alla bocca, dagli occhi scendono lacrime di dolore. «Oh Dio! Non Giovanna, fa che non sia Giovanna.»

Comincia a correre, è veloce, la perdo di vista quando svolta in via Beccheria. Raccolgo tutto, le porterò i suoi acquisti in albergo.

Il vento fa volare lungo la strada dei fogli di giornale e sacchetti di plastica, il silenzio è assoluto. Le vetrine dei negozi riflettono la mia immagine, la via è per metà illuminata dal sole e per metà all’ombra, un netto contrasto, come fra la vita e la morte. Faccio un giro su me stesso, nessuno, questa era la via del centro più affollata, coppie, ragazzi, persone che si godevano la passeggiata… ora sono solo a camminare.

Riecco Lucia, la solerte sentinella sulla sua sedia, la piazza ora è quasi tutta all’ombra ma la calura estiva non dà tregua e lei continua a sventolarsi.

«Guarda come mostri bene lavato e pettinato, a dirla tutta prima puzzavi un po’. Vedo che hai fatto acquisti, anche capi femminili? Non l’avrei detto, un così bel ragazzo sprecato.»

Questa donna ha il potere di mettermi in imbarazzo.

«Non sono miei, sono di Anna che era con me.»

«Era con te? È passata ora di corsa, povera ragazza, stasera avrà bisogno di una robusta spalla sulla quale piangere.»

«Quella che è morta era Giovanna, la sua amica?»

«Sì! Alle volte era più di un’amica, se capisci cosa intendo, Anna è uno spirito libero. Via, andiamo, vengo anch’io, ormai sta facendo buio.»

«Di notte non ci sono guardie?»

«No, troppo pericoloso! Ci rintaniamo dentro come i conigli nella tana e aspettiamo mattina.» Lucia cammina male e usa la picca come bastone. «Guarda come siamo ridotti, rinchiusi in città, aspettando cosa? Se ci fossero ancora il mio Mario e le mie due figliole, sarebbe tutta un’altra cosa. Sai, Alice e Giulia erano belle, magre, non come me, avevano preso tutto dal padre, hanno sempre studiato, andavano all’Università di Pisa, lavoravano duro per mantenersi agli studi. Dicevo sempre loro di prendersela con calma e di godersi la gioventù, ma sai cosa rispondevano? “Non ti preoccupare mamma, ci sarà tutto il tempo dopo”. Non avevano neanche il ragazzo perché erano troppo impegnate e a cosa è servito? Loro ora non ci sono più, sono sopravvissuta io, una vecchia buona a nulla.» Si ferma all’improvviso poi riprende. «Scusami, mi dispiace, sei appena arrivato e ti rovescio addosso i miei problemi. È che ogni tanto devo sfogarmi gli altri vedono la Lucia gioviale, allegra, sempre pronta ad aiutare, non vedono il vuoto che porto dentro. Via, ora basta, tanto non c’è nulla da fare, tiriamo avanti e speriamo in bene.»

Non sapendo cosa rispondere preferisco rimanere in silenzio, procediamo affiancati. In piazza Napoleone, di fronte all’albergo, la giostra è ferma; quand’era in funzione con le luci accese, la musica e le risate dei bambini che cavalcavano felici quei cavalli multicolori trasmetteva allegria, ora è un monumento alla tristezza.

Entriamo nella hall, c’è tanta gente, una donna mi viene incontro.

«Ciao! Tu sei quello nuovo, vero? Come ti chiami?»

Anche altre persone si avvicinano, sono molto imbarazzato, riesco solo a balbettare un «Roberto».

Mi arriva un fuoco di fila di domande. Sono nel pallone più totale, ma per mia fortuna arriva in soccorso Marco.

«Buoni… Lasciatelo in pace, non lo spaventate, altrimenti torna con gli zombie. Fatelo ambientare, lasciatelo passare, dopo avrete tutto il tempo per fargli le domande.» Mi fa spazio. «Vieni Roberto, vai su a posare la spesa. Vedo che ti sei dato da fare. Ce la farò a pagare tutto?» domanda divertito.

Deve essere su di giri. Lucia si dirige verso le scale.

«Andiamo a cambiarci, che fra poco ceniamo.»

«Va bene.»

Le vado dietro, in un angolo vedo Anna e Francesca che stanno parlando, Francesca ha le mani sulle spalle di Anna, lei ha le braccia conserte e gli occhi gonfi di lacrime.

Arriviamo al secondo piano, Lucia ha il fiato grosso.

«Come mai non hai preso una stanza al primo piano?» le chiedo.

«Erano già tutte occupate, Francesca si è anche offerta di darmi la sua ma ho rifiutato, non voglio trattamenti speciali, e poi almeno ne approfitto per fare esercizio.»

«Io sono arrivato!»

«Allora dammi pure le cose di Anna, ha la stanza al mio stesso piano, le lascio fuori dalla sua porta.»

Le porgo le buste e la saluto, Lucia sbuffando imbocca le scale per salire al suo piano.

Arrivo alla porta della mia stanza, davanti trovo un secchio colmo d’acqua, accanto un sacchetto di plastica chiuso. Entro e metto le buste sul letto, prendo il secchio e lo porto in bagno. Sistemo i vestiti nell’armadio, nei cassetti e le scarpe sotto il letto. Apro il sacchetto, dentro ci sono: spazzolino, dentifricio, lamette, schiuma da barba, lozione dopobarba e deodoranti. Fantastico! Entro in bagno, chiudo lo scarico del lavandino e verso l’acqua puzzolente di cloro, spalmo la schiuma e incomincio a sbarbarmi; devo adoperare diverse lamette per avere ragione della folta barba che è cresciuta in queste settimane. Mi asciugo il viso, ora sembro più giovane di diversi anni. Con le mani cerco di sistemare i capelli, li ho sempre tenuti corti, mentre ora sono lunghi fino al collo. Verso sul palmo della mano della lozione e la strofino sulle guance, il dopobarba brucia la pelle arrossata.

Torno in camera, apro l’armadio e guardo i vestiti. Vestirsi elegante mah, cosa intendono? Decido di indossare dei jeans, dei mocassini neri e una camicia bianca, per me è il massimo dell’eleganza. Lo specchio dell’armadio riflette la mia immagine: lavato, sbarbato, vestiti nuovi, sembro un’altra persona, rispetto a quella di poche ore fa. Prima vivevo alla giornata, ma da oggi la mia vita è cambiata… in meglio? Staremo a vedere.

Prima di uscire chiudo la finestra, ormai il sole è tramontato dietro le case, esco dalla stanza e scendo.

Subito sento un gran vociare, ora la hall è gremita di persone, stanno bevendo aperitivi, su un tavolo ci sono bicchieri, bottiglie di liquore e non, ciotole con patatine, salatini e noccioline. Anna non scherzava, sono vestiti di tutto punto, sembra di essere al ricevimento di un matrimonio: le donne sono in abito da sera, con tacchi vertiginosi e i maschi sfoggiano pantaloni e camicie di alta sartoria. Mi sento fuori posto, meno male che non si sono girati tutti verso di me, facendo calare il silenzio come nel più classico dei film: sarei morto dall’imbarazzo.

Marco, che è dall’altra parte della sala, alza la mano per farsi notare e mi fa segno di raggiungerlo, fendo la folla per avvicinarmi.

«Eccoti finalmente! Roberto, questa è Luciana. Luciana, lui è Roberto, quello di cui ti stavo parlando.»

Lei fa un gran sorriso. È carina, capelli mori a caschetto, viso tondo, sopracciglia fini che disegnano un arco sugli occhi, labbra larghe rese ancora più evidenti dal rossetto rosso acceso, occhi scuri, viso magro con zigomi marcati. Indossa un abito da sera nero con una vertiginosa scollatura, che lascia intravedere un seno pieno, e con uno spacco che arriva fino alla coscia, sandali neri con un bel tacco che slancia la sua minuta statura. Le porgo la mano, ha una stretta ferrea, decisa, non l’avrei detto. Marco rompe il silenzio che si era creato.

«Noi stiamo bevendo dello spritz, se vuoi te ne vado a fare uno.»

«Preferirei della Coca, se ci fosse… E grazie per l’acqua e il necessario per la barba.»

«Di niente! La Coca ce l’abbiamo! C’è di tutto qui. Ti ci metto un po’ di rum per dargli… brio?»

«Sono a stomaco vuoto.»

«Dai, tanto fra poco si mangia.»

«Va bene! Giusto un goccio, grazie.»

«Non c’è di che, vado e torno.»

Marco si allontana, Luciana mi sta squadrando in silenzio, cerco qualcosa da dire.

«Com’è fuori?» chiede lei.

«In che senso?»

«C’è vita o è tutto morto?»

«Non ho girato molto. Fuori Lucca ho visto solo due persone vive e una non è durata più di tanto.»

Mi scruta con i suoi occhi castani, non sembra sorpresa per la risposta. Sta arrivando Marco con la bibita, con un codazzo di persone al seguito.

«Ecco la sua ordinazione, il costo, comprensivo della mancia, sarà addebitato alla sua camera.» La battuta mi strappa dagli occhi ipnotici di Luciana. «Ci sono amici che ti vogliono conoscere.»

Marco parte con un fuoco serrato di presentazioni, stringo molte mani, perdo il conto e dopo poco ho una confusione in testa di visi e nomi che non riuscirò mai ad associare. Tutti fanno domande senza neanche darmi il tempo di rispondere.

«Ragazzi ora basta, hanno già chiamato per la cena, lasciatelo in pace, ci sarà tempo per conoscerlo.»

Ci incamminiamo alla sala ristorante, ho la gola secca, bevo la bibita.

«Meno male che ti avevo detto piano con l’alcol» il rum mi brucia lo stomaco.

Luciana fa una risatina.

«Stasera ti siedi al tavolo con noi» mi dice Marco, «con noi ci sarà anche Paolo. La cena è organizzata a buffet, ti alzi e prendi quello che ti va, l’importante è che quello che prendi mangi, cerchiamo di non sprecare cibo. Usiamo piatti, posate e bicchieri di plastica, così dopo non vanno lavati. Stasera abbiamo carne alla griglia con contorno di fagioli, piselli in scatola e pane confezionato. Il menu varia in base alle scadenze che hanno in cucina. Finché troviamo il gasolio per mantenere acceso il generatore che alimenta il congelatore e la cella frigo, non ci sono problemi.»

Tutti prendono posto ai propri tavoli, io seguo Marco e Luciana a un tavolo laterale, arriva anche Paolo vestito come il suo carattere, tutto in nero.

La sala è lunga e stretta, il lato destro ha delle ampie vetrate che danno su piazza Napoleone. Ci sono decine di tavoli rotondi, il soffitto e le pareti sono decorate da affreschi, quattro enormi lampadari in vetro di Murano pendono dal soffitto. Il pavimento è di piastrelle in ceramica dipinta, messe in maniera da formare disegni geometrici. L’aria della sala è fresca, sto chiedendomi come sia possibile, quando vedo lungo le pareti dei condizionatori portatili. Ci sediamo, il tavolo è coperto con una tovaglia di carta bianca già apparecchiata con piatti, bicchieri e posate, una bottiglia di vino, una di acqua e tre candele, due sono mezze consumate. Anna è seduta a un tavolo dall’altro lato della sala, ha ancora un’espressione cupa sul volto.

Nell’aria c’è un chiacchiericcio allegro e scoppi di risa. Fa strano, non ci sono abituato dopo giorni passati in silenzio a mangiare da solo.

Francesca si alza, il suo tavolo è centrale, seduti con lei ci sono i due ragazzi che ho visto oggi con la sfortunata Giovanna, si schiarisce la voce per invitare a fare silenzio.

«Purtroppo, come saprete già, oggi Giovanna è stata contagiata, per uno sfortunato evento che dopo Luciano e Alessia ci descriveranno» abbassa la testa. «Ha chiesto che le fosse risparmiata la trasformazione, così è stato.»

Si rimette a sedere. Si alza Luciano, è snello, grossi occhiali dalle lenti spesse, capelli lunghi scuri, sul viso ha dei brufoli. È vestito con una giacchetta grigia, pantaloni dello stesso colore e scarpe nere.

«Eravamo entrati sotto il baluardo San Paolino per portare i corpi di due zombie che avevamo trovato e ucciso nella zona di San Frediano. Mentre eravamo intenti a scaricare i corpi, dal buio è sbucato uno di loro e ha aggredito Giovanna alle spalle» s’interrompe un attimo, scosso dall’emozione. «Avevamo lasciato le armi fuori, siamo riusciti a strapparla al suo aggressore e siamo fuggiti via per tornare qui.»

Alessia si alza, in confronto alle altre è vestita normale, con una camicetta rosa, una minigonna bianca e stivaletti rosa. Ha il viso ovale, occhi grandi e chiari, una ciocca di capelli le scende sulla fronte.

«Chiediamo scusa, è tutta colpa nostra, scherzavamo senza guardarci intorno…» china la testa.

Dal suo tavolo si alza Anna, va da loro e li stringe in un lungo abbraccio.

Francesca riprende la parola: «Questo c’insegna che non dobbiamo mai abbassare la guardia, nonostante i nostri sforzi, non riusciamo a rendere sicuro quel posto e ci sono ancora troppi zombie che circolano in strada; studieremo un piano per aumentare la disinfestazione, ogni consiglio sarà ben accetto. Domattina accompagneremo Giovanna nel suo ultimo viaggio, tutti i turni saranno spostati a dopo le esequie. Sulla lavagna troverete i turni di domani. Ora, prima di cenare, facciamo un minuto di silenzio in ricordo di Giovanna.» Tutti ci alziamo in piedi, passato il minuto scroscia un lungo applauso, dopo il quale Francesca continua: «Un’ultima cosa, oggi è arrivato in città Roberto, dopo gli chiederò di raccontarci la sua storia. Prima però mangiamo.»

Una volta terminato il discorso le persone vanno a servirsi, io aspetto, ho sempre odiato la ressa, il cibo sul tavolo del buffet è abbondante. Quando vedo che la calca è diminuita mi avvicino, prendo un pezzo di bistecca e una striscia di manzo, tre porzioni di fagioli che condisco con olio e sale, due fette di pane a cassetta e ritorno al mio posto.

«La carne alla griglia… quanto mi mancava!»

«Cuciniamo tutto sul fuoco, l’erogazione di metano è stata interrotta appena la situazione è peggiorata, i pompieri avevano timore che potessero scoppiare incendi e i fornelli della cucina non vanno a GPL» mi spiega Paolo.

«Ho visto che avete una bella scelta di portate.»

«Il cibo non ci manca, però cerchiamo di non sprecarlo, quello che avanzerà stasera lo riutilizzeremo domani» dice Luciana.

Marco prende la bottiglia di vino.

«Ne vuoi?»

«No, grazie» rispondo.

«Non bevi vino?» chiede Luciana stupita.

«No, non mi piace.»

«Non bevi vino e gli alcolici sì?» insiste.

«Lo so, sono strano. Se è per quello non bevo neanche la birra, gli spumanti e la grappa, passo dalla Coca o aranciata, direttamente ai superalcolici, però mescolati.»

«Sei molto strano» ribatte lei con un sorriso.

«Allora se ti dico Sassicaia, Montalcino, Nero d’Avola, non ti dicono nulla?» chiede Marco.

«Certo! Li conosco, dicono che siano ottimi vini, ma non li ho mai assaggiati.»

«Non sai che ti perdi. Con tutte le enoteche e cantine dei ristoranti che ci sono in città abbiamo una scelta enorme di bottiglie, cose che prima me le sognavo.»

La conversazione aiuta a far passare il tempo. La luce della sera sta svanendo lasciando il posto alle tenebre. Nella sala vengono accese le luci, ogni lampadario ha solo una lampadina, di quelle a risparmio energetico, a fatica riescono a rischiarare l’ambiente; sui tavoli vengono accese le candele. Paolo nota la mia aria sorpresa.

«Lo facciamo per non sovraccaricare il generatore, per questo sono state tolte tutte le lampadine in più, ce n’è solo una per ogni rampa di scale, corridoio e camera.»

Nella sala si spande l’odore della cera. La cena è finita, il brusio nella sala è aumentato di volume, le persone hanno la pancia piena e l’alcol aiuta a rilassarsi.

Francesca viene al nostro tavolo.

«Hai finito?» mi chiede. «Vieni con me, così ti presento agli altri.»

Questo è il momento che temevo di più, ho sempre odiato parlare in pubblico, al solo pensiero comincio a sudare. Francesca sta aspettando, faccio uno sforzo di volontà per alzarmi e andiamo al suo tavolo.

«Scusate, un attimo di silenzio! Vorrei dare la parola a Roberto. È arrivato oggi, quindi ora ci racconterà la sua storia.»

Ecco ci siamo, ho tutti gli occhi su di me, faccio un profondo respiro e comincio a parlare.

«Voce! Non si sente!» qualcuno mi interrompe.

Sono imbarazzato, non amo essere al centro dell’attenzione. Mi schiarisco la gola, riprendo a parlare a voce alta e per l’ennesima volta racconto la mia storia. Vedo che tutti stanno seguendo con vivo interesse.

Ora che ho finito, il silenzio grava sulla sala, non so cosa fare, torno al mio posto? Si aspettano che aggiunga qualcos’altro?

Grazie a Dio si alza un uomo, è di colore, ha la pelle molto scura, deve essere originario di uno stato centro africano, alto, corti capelli ricci neri, faccia tonda, occhi grandi, naso schiacciato, è imponente. Indossa una lunga veste bianca.

«Ciao, sono Karim. Là fuori hai per caso visto veicoli dell’esercito, protezione civile, NATO o altro? Non so se mi sono spiegato…»

«Ho capito cosa intendi» rispondo, «se in qualche modo ho visto i segni di un invio di aiuti da parte delle autorità o dei ricognitori. Sono spiacente, ma non ho visto nulla del genere. Sono anche passato vicino all’aeroporto di Tassignano, che poteva essere un’ottima base per far arrivare degli aiuti, ma nulla.»

Karim si rimette a sedere, sul viso ha dipinta un’aria di sconforto.

Si alza Marco.

«È da oggi che ti volevo chiedere una cosa. Non hai visto nessun segno di gruppi di sopravvissuti organizzati?»

«Anche questa volta devo rispondere di no, almeno non nella periferia di Lucca che ho attraversato, però nulla vieta che ci possano essere. In Italia ci sono tanti borghi medioevali, più o meno grandi, tipo Barga, Castelnuovo Garfagnana, Ghivizzano Castello, Montecatini Alto, solo per rammentare i più vicini, che possono essere chiusi per dare ricovero a chi è scampato al virus, come è successo qui. E ce ne sono anche in Europa.»

Questa risposta dà il via a una vivace discussione nella sala, sento Francesca accanto a me che parla con Alessia: «Interessante, non avevo pensato a questa possibilità.»

Continuo: «Quelli che ho menzionato sono paesi molto più piccoli di Lucca e anche la loro autonomia sarà minore, specialmente se ospitano numerose persone…» Mi interrompo bruscamente e alzo una mano, indicando fuori. «C’è uno zombie.»

Tutti si girano, vicino alla vetrata ne è comparso uno attirato dal rumore; se ne sta lì fermo a guardarci, come se fosse incredulo di avere trovato così tante prede.

Luciano urla: «È quel bastardo che ci ha aggredito oggi!»

Qualcuno apre la porta, in molti escono in strada. Francesca si alza e fulmina Luciano con lo sguardo.

«Non avete chiuso il portone!» e batte il palmo della mano sulla tavola, facendo rovesciare un bicchiere.

Lui abbassa gli occhi.

«Non con la corda» risponde, poi esce in strada raggiungendo gli altri.

Mi avvicino alla vetrata, vedo che qualcuno porta dei bastoni, lo circondano e lo riempiono di mazzate, facendo attenzione a non colpirlo alla testa. Quelli che sono rimasti dentro li incitano, ogni colpo andato a segno solleva urla di gioia; lo zombie è a terra ridotto molto male ma con una mano continua a cercare di artigliare quelli vicini. Un ultimo colpo alla testa mette fine al pestaggio. I giustizieri rientrano più sollevati, sono dei veri esperti, non si sono neanche macchiati i vestiti.

Ristabilita la quiete, viene portata una SoundDock, la collegano a un lettore mp3 e una musica da discoteca si diffonde nel locale. Grazie allo zombie sono stato dimenticato, con mio grande sollievo.

Vengono spostati i tavoli per creare spazio e chi vuole si mette a ballare. Io ritorno al mio posto, una volta seduto bevo un po’ d’acqua, per l’imbarazzo avevo un deserto in bocca. Sento un lieve tocco sul polpaccio, penso a un gatto, guardo e vedo il piccolo piede di Luciana che si muove, accarezzando la stoffa dei miei pantaloni. Marco non si è accorto di niente, sta parlando con un tizio del tavolo vicino, Luciana invece mi sta divorando con gli occhi. Diplomaticamente mi sposto, portandomi fuori tiro di quel malizioso piede. Marco si alza, prende Luciana sottobraccio e vanno a ballare, restiamo io e Paolo, mister felicità saltami addosso che mi sposto.

L’atmosfera si scalda, viene messa della musica latino americana, alcuni di loro si sono allineati su più file e ballano eseguendo una specie di coreografia, alcune coppie danzano veloci seguendo il ritmo.

Paolo si avvicina con la sedia.

«Roberto, dimmi, cosa vedi?»

Rimango perplesso.

«Vedo delle persone che si divertono dopo una dura giornata.»

«Io invece vedo dei cadaveri che non sanno di essere già morti.»

Ignoro il suo pessimismo, anche se stavolta non riesco a essere del tutto in disaccordo con lui.

«Francesca prima parlava di un portone che non è stato chiuso, a quale si riferiva?»

«Ora è troppo pericoloso uscire, ci penseranno domattina.»

Devo ammettere che non è uno che parla molto.

Si avvicinano due donne, indossano dei vestiti molto succinti.

«Venite a ballare?» domanda la più carina.

«No grazie, non me la sento» rispondo io, mentre Paolo semplicemente si alza e se ne va.

«Te l’avevo detto che era tempo perso, Paolo non balla mai» dice l’altra.

«Speravo che Roberto fosse più socievole» le risponde l’amica mentre se ne vanno.

Ecco fatta una bella falsa partenza.

La tensione della giornata si fa sentire, bevo un ultimo bicchiere d’acqua, prendo la bottiglia, mi alzo e, scansando i ballerini, vado verso le scale. Mentre passo, vengo fermato da chi vuole darmi la sua personale accoglienza, ricevo pacche sulle spalle, baci, strette di mano, parole di benvenuto, sono tutti molto cordiali; sono così stanco e la musica è così alta che capisco a malapena quello che dicono, mi limito ad annuire con la testa e a sorridere come un idiota. La porta d’ingresso della hall è chiusa. Salgo le scale, abbandonata sui gradini c’è della biancheria intima femminile, dovevano avere molta fretta. Entrato nella stanza, tolgo i vestiti e rimango in slip, fa un caldo boia, apro la finestra, prendo l’agenda e nel cassetto del comodino trovo una penna, quella che tutti gli hotel mettono nelle camere a disposizione dei clienti, scorro le pagine, trovo quella del 5 agosto e inizio a scrivere: “Oggi sono entrato a Lucca”.

Metto nero su bianco un rapido resoconto della giornata. Non ho mai tenuto un diario però ora sento la necessità di mettere per iscritto la mia storia, forse per esorcizzare le mie paure.

Bussano, vado alla porta e apro.

«Ciao!»

«Ciao!» rispondo, una donna è appoggiata allo stipite della porta. È carina, viso ovale, i capelli ricci, neri e lunghi, le incorniciano il volto, gli occhi neri, dietro un elegante paio di occhiali, sono socchiusi in un atteggiamento sensuale; noto un naso con una leggera gobba e delle belle labbra impreziosite da un rossetto rosso scuro. Indossa una camicetta blu sbottonata, che lascia intravedere un reggiseno a balconcino bianco, e una minigonna, anch’essa blu, molto corta.

«Sono Erica, sono passata per chiederti se hai bisogno di compagnia, appena arrivato ti sentirai solo, potremmo fare due chiacchiere per conoscerci meglio» intanto si sta passando le dita della mano sulla curva dei fianchi.

«Ti ringrazio Erica ma stasera sono molto stanco, caso mai un’altra volta, perdonami» e con gentilezza chiudo la porta.

Marco non scherzava, qui fanno sul serio. Non faccio in tempo a pensarlo che ribussano.

Non avrà capito bene, mentre apro dico: «Scusa, davvero…» Ma è un’altra, questa è cicciottella, alta un metro e sessanta, le sue forme riempiono bene il vestito lungo che indossa, una spallina le ricade sul braccio, capelli lunghi neri le coprono le spalle, viso tondo, occhi piccoli di colore castano, un piccolo nasino e una piccola bocca; sembra fatta tutta in scala. Le sue labbra sono aperte in un sorriso accattivante.

«Ciao, sono Gaia, ti va di avere compagnia questa notte?»

«Scusa, ma non è il caso, oggi ho avuto una lunga giornata impegnativa e ora sto pagando pegno. È meglio che vada a letto, così domani sarò riposato. Ci vediamo» tento di chiudere la porta, ma il suo piccolo piede la blocca. Io cerco gentilmente di spostarlo e lei cerca gentilmente di entrare. «Facciamo domani sera, sarò più in forma. Ok?»

Facendo forza riesco a chiudere la porta e vi appoggio la schiena. Non credevo di essere così desiderabile o stanno facendo una gara a chi arriva prima?

Ribussano, oh no! Non ancora, questa volta rispondo male. Apro, un’ombra avvolta di profumo mi passa vicino, mi giro infuriato e rimango stupito; Anna è in mezzo alla stanza, indossa un negligé nero corto, trasparente, sotto ha solo un minuscolo slip nero, in una mano ha una bottiglia di spumante e nell’altra due calici di vetro.

«Ciao, ti piace come mi sta? Ho pensato di mettermi questa cosetta, tanto quello che c’era da vedere l’hai già visto, mentre io sono rimasta con una certa curiosità.»

Passato lo stupore, penso che ci ha messo davvero pochissimo a elaborare il lutto per la morte dell’amica.

«Ma che succede? C’è la fila davanti alla porta?» Infatti bussano ancora una volta.

Anna posa la bottiglia e i bicchieri vicino alla televisione «Aspetta, ci penso io.»

Va alla porta ancheggiando, splendido spettacolo, la socchiude, non vedo chi c’è fuori.

«Ora è occupato, passa parola.» Chiude la porta e poi si rivolge a me. «Fatto, ora non ci disturberà più nessuno.»

Va a sedersi vicino alla sponda del letto, accavalla le lunghe gambe, ai piedi ha delle pantofoline nere con dei pompon; mi fa cenno di raggiungerla. Io vado a sedermi dalla parte opposta del letto ma il mio è un tentativo inutile: in una frazione di secondo lei annulla la distanza e si francobolla al mio fianco.

«Ti hanno sistemato in una bella camera, peccato che non ci sia il letto matrimoniale… vorrà dire che ci dovremo stringere.»

Non ho il tempo di rispondere, si alza e va a prendere la bottiglia di spumante.

«Anna, aspetta, sei una bellissima ragazza, molto affascinante, però è meglio fermarci qui, non me la sento di andare avanti… è da pochi giorni che ho perso mia moglie… Abbiamo vissuto sempre uno per l’altra, non posso farlo ora, e non so se mai ci riuscirò. Lei è morta… per modo di dire. Sarà ancora là che si aggira nella nostra casa, forse un giorno ci sarà una cura, forse no, ma per me è ancora viva.»

Anna è rimasta in silenzio ad ascoltare, ha smesso anche di aprire la bottiglia. Si avvicina, ha gli occhi lucidi, si china e mi dà un lieve bacio sulla guancia, poi si gira, prende i bicchieri e sempre in silenzio esce dalla stanza.

È andata, avrei detto che non l’avrebbe presa bene, invece ha capito. Come pronosticato, non viene più nessuno a bussare, il comitato di benvenuto ha recepito il messaggio.

Finisco di scrivere sul diario al fioco chiarore che c’è in camera, spengo la luce e rimango a occhi aperti a guardare il soffitto, la luna illumina la stanza, penso a tutto quello che è successo in questo lungo giorno, poi scivolo nel sonno.

 

di Roberto Piccinini

Pima parte del libro concessa dall’autore scrittore lucchese

in accordo con la casa editrice ETK Edizioni

 

 

 

 

 

 

 

https://www.ektglobe.com/prodotto/io-e-gli-zombie/

il Lustro
dario.barsotti@hotmail.it
No Comments

Post A Comment