03 Ago Il fiasco del vino
Il fiasco del vino
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Era usanza, in casa di mio nonno e finché il nonno era vivo, che il fiasco del vino non stesse in tavola, ma in terra, alla destra della sedia del capofamiglia.
Non saprei se questa fosse una consuetudine diffusa, se fosse abitudine lucchese o toscana, se appartenesse a retaggi della cultura contadina o povera, ma così era.
Dunque chi voleva bere del vino aveva a richiederlo al nonno e lui felice ne mesceva, senza sbuffare, senza centellinare, semplicemente ne elargiva ai commensali.
E il vino non mancava mai, non si teneva il conto dei bicchieri, non si diceva facesse male, ingrassare o ubriacare, veniva versato a chi ne voleva e basta.
Probabilmente l’usanza era legata alla numerosità delle famiglie, dove, con dieci figli ,magari tutti maschi ( autentiche braccia, ricchezza per il lavoro nei campi ), il vino poteva terminare ancor prima di iniziare il pasto e la cantina di scorta doveva bastare fino alla nuova produzione.
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Il vino bevuto quotidianamente era il picciolo, sottoprodotto ricavato dallo strizzo, ultima spremitura, al quale si aggiungeva acqua a discapito della gradazione e quindi della conservazione. Per questo nella vinificazione, oltre che per favorire la fermentazione, si aggiungevano nella torchiatura del picciolo, dei grappoli selezionati e fatti precedentemente asciugare sui cannicci.
Si ammostava appunto un vino “picciolo”, piccolo piccolo, di per se debole “che non regge né acqua, nè alla prova de’ rigori del verno, o de’ calori della state”.
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Il vino buono veniva invece usato per la vendita o le occasioni speciali come il pasto della domenica e le feste e manteneva un’importanza e una specie di venerazione nelle famiglie contadine, in quanto fonte di reddito e fatica, da non “sprecare”.
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Ad oggi il vino ai pasti è poco utilizzato, lo beve normalmente l’uomo, se non preferisce la birra o, addirittura, le bevande dolcificate gasate; la donna raramente beve vino nel quotidiano, i giovani ancor meno.
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Il vino, che ora sta sul tavolo, raramente è di origine locale, sporadicamente “contadino/genuino” in quanto prodotto in cantina e rielaborato con la scienza per esigenze commerciali, igieniche e logistiche ( “vino d’uva” si diceva ); spesso ha packaging colorati in tetrapak che richiamano la natura, il territorio, il lavoro umano, la cooperazione, la salute…
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Il fiasco del vino non rappresenta più un simbolo da rispettare in quanto frutto del lavoro ma un accessorio neanche più tanto utile.
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Se poteva rappresentare uno scettro di potere e rispetto per il capofamiglia è stato in questa funzione soppiantato dal telecomando TV.
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E la parola, il dialogo, l’opinione, la socialità, la famigliarità, sostituiti da un’invadente tecnologia fatta di smartphone, multimedialità, social, messaggistica e fiction.
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È questa la deludente deriva dell’involuzione di un Homo sempre più incapace di vedere, percepire, comunicare e vivere senza che i suoi occhi subiscano l’alterazione di un filtro digitale impersonale denominato “DISPLAY” ?
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