La Grande Quercia o il Frassino Grande?

La Grande Quercia o il Frassino Grande?

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Un Mangia-fòco, mosso da impensata compassione per il randagio Pinocchio, gli regala cinque monete d’oro affinché le consegni al suo babbo, che “di mestiere fa il povero”. Il burattino contravviene le raccomandazioni di un’ombra di Grillo e cede alle lusinghe di Volpe e Gatto, due impostori che promettono di moltiplicare la somma semplicemente seminando il denaro in un miracoloso campo. 

Partendo il mattino seguente i due malfattori possono consumare un lauto pasto e “stiacciare” un sonnellino presso un Oste compiacente, dileguandosi di buonora per motivi familiari.

A saldare il conto è Pinocchio che, comunque appagato per la incombente ricchezza, sacrifica una delle cinque monete e si mette in cammino per ritrovare i suoi benefattori.

Due briganti imbacuccati lo bloccano prima, intimandogli di consegnare tutto il denaro; lui fugge per quindici chilometri, si rifugia su un pino, viene scoperto, scappa nuovamente, chiede aiuto ad una bambina fatata che abita una casa spettrale e infine viene catturato.

Neppure i fendenti di coltello nelle reni possono niente contro il nodoso legno del burattino che protegge il tesoro in bocca amputando zampini di gatto coi morsi.

Si decide per l’impiccagione di Pinocchio ad un grosso albero.

Il povero Cristo invoca il padre, che lo ha abbandonato, prima di stecchire.

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“Meno ciarle e fuori i denari o sei morto!” gridavano i due briganti imbacuccati.

( Capitolo XVI )

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Le colline della lussureggiante Val di Lima, furono il territorio di molti briganti, più i meno organizzati a delinquere, che qui si muovevano indisturbati per le loro scorribande.

Le vittime? 

Non solo i ricchi viandanti, logicamente…

Non stiamo parlando di Robin Hood, ma di persone prive di scrupoli pronte ad uccidere se gli venisse negato un coniglio per il pranzo, se il loro nascondiglio fosse svelato, per uno sguardo non apprezzato o per qualsiasi altro futile motivo.

Erano essi assassini e canaglie ben conosciute dalla legge che, per i soggetti più recidivi e pericolosi, assegnava autentiche taglie, fornendo identikit del ricercato.

I compaesani del malfattore, più per paura che per omertà, mai avrebbero tradito il bandito e così , avveniva che molti di questi delinquenti si creassero,  oltre ad una banda, anche una specie di rete sempre pronta ad allertarsi in caso di visita delle forze dell’ordine.

Oltre a questo era cosa assai utile il darsi alla macchia ed il vivere nomadi di paesino in paesino, capanna e capanna, sempre disperdendo le tracce dei vari soggiorni e i bivacchi.

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Queste colline furono anche i feudi di pochi aristocratici proprietari della totalità delle terre conosciute e censite. Dopo i romani furono i reali di origine longobarda a costruire su ogni colle una piccola roccaforte con tanto di torre, chiesa e castello, da cui fronteggiare i rivali locali per il controllo dei territori.

Nell’epoca della Lucca repubblicana e oligarchica queste magioni, oppure delle ville di nuova costruzione, divennero le residenze delle ricche famiglie di mercanti, i nuovi padroni dei vari paeselli.

I commercianti lucchesi, essenzialmente specializzati in seta,  accumularono ingenti capitali che più di una volta andarono a finanziare l’uno o l’altro reale europeo consolidando un indiscusso potere dell’arborato cerchio nello scenario internazionale.

L’altro primato, vantato da Lucca, era quello di capitale religiosa, di città delle cento chiese e dei tanti uomini ( e donne ) di clero.

In realtà aristocrazia e clero erano ambiti strettamente collegati in famiglia.

Il primogenito maschio era di fatto il degno erede del casato, il secondogenito normalmente un prete instradato ad una carriera da religioso, dal terzo figlio in avanti tutti soldati o militari. Per i figli di sesso femminile la faccenda era diversa. La prima otteneva una dote come legittima affinché trovasse marito di pari ceto sociale e rafforzasse così, con una consorteria, le alleanze politiche ed economiche tra le due famiglie. 

Dalla secondogenita in avanti le figlie si ordinavano suore, entravano in convento da giovani e qui studiavano e conducevano la loro vita.

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In questo scenario di banditi, nobili, preti e suore da racconti di Canterbury manca soltanto un soggetto: il popolo.

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Il popolo era costituito da un’infinita massa di poveri con un’alta mortalità infantile, una bassa aspettativa di vita e tanta, tanta fame e paura.

Costanti, queste ultime due, che accompagnano un po’ tutta la storia di Pinocchio.

Nel popolo, prevalentemente costituito da contadini, includiamo anche i titolari dell’odierna partita IVA, i tanti artigiani, tra cui i falegnami, boscaioli, barrocciai e gli esercenti della ristorazione tra cui i locandieri e gli osti.

Uno di questi, tra i più famosi nella narrativa ma soprattutto nel racconto oggetto del nostro interesse, è l’oste del “Gambero rosso”.

“Certo signori!” -rispose l’oste strizzando l’occhio a Volpe e Gatto facendo capire d’aver mangiato ben bene la foglia.”

( Capitolo XIII )

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Il colorato locandiere, dopo aver servito un pranzo luculliano ai due malanni ed avergli riservato una camera distinta da quella del protagonista, ne coprirà l’uscita notturna provvedendo a svegliare il sognate Pinocchio comunicandogli che i due, causa un impegno improvviso, hanno dovuto alzare i tacchi lasciando a lui, come fanno i “gran signori”, il conto da pagare.

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Perché titolare un locale, così addentrato nell’entroterra toscano, che fosse la valle del Pescia minore o del fiume Lima, col nome di un crostaceo marino ?

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I frutti del pescato e del mare erano cibo soltanto per gli abitanti della costa o per pochi ricchi privilegiati, non certo per le persone del popolo che frequentavano le osterie di terra!

Si deve infatti notare che il pranzo dei Gatto e Volpe consisteva in portate di terra ed in ricca cacciagione che per nulla si imparentava col “salmastroso” pesce o il crostaceo…

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Ci troviamo forse di fronte ad un altro indizio del sagace Collodi?!?

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Già abbiamo detto che Carlo Lorenzini fu uomo calato nel suo tempo risorgimentale e intellettuale impegnato su vari argomenti tra cui la satira politica.

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Quale “uomo di mare” che fosse rosso e come il gambero camminasse all’indietro, ovvero facesse ritorno, potrebbe mai avere citato?

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La risposta è così ovvia da sembrare banale: Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi.

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Scopriamo dalla critica storica che di eroe “puro” avesse ben poco. 

Mi limito a documentare di Garibaldi che il mare fosse il suo habitat, lui, figlio di capitano di navi, comandò la sua prima a soli 25 anni, solcherà l’oceano per arrivare in Uruguay dove combatterà nella guerriglia per la liberazione del Paese dall’Argentina.

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Celebre il suo rientro in Italia, “all’indietro come i gamberi”, per partecipare ai moti del 1848 che, tramite le varie guerre d’indipendenza, approderanno alla costituzione del Regno d’Italia.

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Sulla faccenda del “rosso” sappiamo che le “camicie rosse” furono la sua brigata dei mille che da Quarto partì per la Sicilia per risalire su su fino a Teano dove incontrò il Re che lo ringraziò, contestualmente liquidandolo, scongiurando che arrivasse a Roma dal Pontefice Pio IX.

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Uno sgarbo fatto al Papa non sarebbe stato apprezzato dal nostro Pinocchio Napoleone III…

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Il rosso era colore caro all’eroe che già lo aveva adottato per i suoi guerriglieri in Uruguay acquistando a buon prezzo queste uniformi scarlatte.

In realtà si trattava di casacche da lavoro che il produttore aveva confezionato di quel colore perché destinate a dei macellai, intesi come bottegai della carne.

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Definito chi poteva essere l’Oste, questo oste appartenente al popolo, non rimane che identificare gli altri personaggi della nostra storia: Volpe, Gatto e Grillo-parlante.

Anche qui la soluzione è assai ovvia ma non voglio anticiparla in questo capitolo.

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Torniamo dunque al titolo: la Quercia.

Nella frazione di Gragnano, a pochi chilometri da Collodi e lievemente a monte rispetto alla strada che da Pescia porta a Lucca, nel parco di una storica villa, si può ammirare uno splendido esemplare di Quercus pubescens. Un albero antichissimo e maestoso collegato a molte leggende e definito dagli abitanti del posto come “Quercia delle streghe”. 

Si dice infatti che sui suoi rami le streghe danzassero i loro sabba determinando con quella loro insistente attività un  eccezionale sviluppo in larghezza delle ramificazioni: una crescita parallela al terreno che è cosa assai anomala per questa specie botanica. La chioma della “roverella” di Gragnano ha un diametro di oltre quaranta metri , il doppio della sua misura in altezza , ed un tronco dalla circonferenza di più di quattro metri che classifica l’esemplare come il secondo in Toscana per dimensioni, tra gli alberi monumentali.

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Abbiamo detto che si tratta di pianta plurisecolare, si stima sui 600 anni di età, e che pertanto già esistesse ( e fosse conosciuta ) nei tempi del Lorenzini.

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La vicinanza al paese dello scrittore, il grande “carisma vegetale” dell’albero e la verosimiglianza con quanto narrato dal Collodi l’hanno fatta da sempre appellare come “Quercia di Pinocchio”.

Non me ne voglia nessuno per quanto affermerò, questa è solo una teoria, una delle tante formulate in questa specie di libro…nessuno vuole negare o confutare quella che è la credenza popolare, la tradizione o la critica storica, argomenti peraltro a me cari…

“Così, dopo avergli passato una corda attorno alla gola, lo impiccarono penzoloni al ramo di una maestosa quercia detta la Quercia Grande”

( Capitolo XVI )

Ho il difetto di credere che il pensiero talvolta ci faccia i dispetti. 

Mi affascinano per questo le tesi contrarie e il gioco stupido dei bimbi che cambiano i nomi alle cose. Lo so è atteggiamento infantile e romantico che poco si imparenta con la storia e l’ambiente serioso della cultura…ma non so farne a meno, dell’ambiente culturale non faccio parte, neanche sono uno storico, quindi perché non dire un’altra mia “Bugia da Pinocchio”?

Dirò intanto che non si trattava di Quercia bensì di Frassino, il frassino di Villa Politi a Lugliano.

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La Bagni di Lucca dell’epoca era luogo mondano frequentato dai nobili di tutta l’Europa.

Non solo i tanti locali, gli alberghi, le terme e le sale da gioco ma anche le ville degli aristocratici e dei ricchi signori si prestavano per feste e ricevimenti degni di un re.

Gli ospiti, poi, erano gente illustre, come baroni, conti, marchesi, statisti, artisti e intellettuali, ognuno dei quali possedeva, nella splendida cittadina termale , almeno un villino per le vacanze.

Organizzare cerimoniosi rinfreschi rappresentava una specie di gara per mettersi in mostra, esibire la propria sfarzosa dimora, gli arredi di pregio e il seguito di preziosi suppellettili ed opere d’arte possedute.

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Quale più stravagante location si potrebbe trovare se non imbastire una cena di gala su di un albero?

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Una particolarità della Villa dei nobili Politi, oltre al labirinto di bosso,  era proprio questo splendido frassino.

Impiantato prima del 1600 sfoggiava una struttura, ben radicata e salda, sviluppata sia verticalmente che orizzontalmente.

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Nella cavità alla base della sua primaria ramificazione era stato allocato un ballatio, una specie di piattaforma di legno del diametro di circa sei metri, su cui i Politi avevano fatto sistemare il loro bel tavolo.

La “stanza sospesa” così ricavata era dotata di tanti sedili e sembra potesse  ospitare ben oltre le venti persone.

Qui si servivano le cene, si discuteva di moda o politica e si poteva perfino ballare.

Un esemplare vegetale, il Frassino,  di tutto rispetto, senz’altro più nobile della Quercia “di campagna” di Gragnano che, sebbene fosse ancor più imponente, restava un po’ fuori mano dai circuiti più aristocratici del centro termale lucchese. 

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In un Pinocchio ambientato ( o “ispirato” ) nella valle di Lima, non poteva certo mancare una Grande Quercia anch’essa nostrana! In questo caso, come nella tradizione collodiana, la vera famiglia della pianta “fraxinus ornus”, teatro dell’impiccagione del burattino, viene celato col nome di quercia benché si trattasse di orniello.

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Pinocchio moribondo pronunciò le parole: – Babbo mio, perché non sei qui con me?!”

( Capitolo XV )

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Alcuni passi del capitolo in questione e di quello precedente, hanno dei tratti realmente macabri e terrificanti che poco hanno a che spartire con un libro per bambini.

Già si è parlato di fame, miseria, separazione, morte, ferite, punizioni e prigionia.

Questi temi, disseminati in tutte le pagine, sono un monito al seguire le regole imposte ed una sorta di morale a cui indirizzare i bambini monelli; mai si era accennato però a colluttazioni, coltellate, amputazioni, impiccagioni o tentativi di incendiar le persone.

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La cosa che mi lascia maggiormente basito, oltre al fatto che si parli di Pinocchio come fiaba per l’infanzia, è che in origine il libro dovesse qui terminare con la morte del protagonista. 

Così era nell’idea dell’autore o forse nelle logiche editoriali de “Il giornale per i bambini” . 

Che trama sarebbe stata questa troncata tragicamente al quindicesimo degli invece trentasei splendidi capitoli?

Fortuna ha voluto che, i bambini “appesi ad un filo”, parlo dei lettori rimasti con un “palmo di naso”, protestarono con le loro letterine e l’editore dovette persuadere il Collodi a dare un seguito a questo macabro non-lieto finale.

Le avventure continuano, dunque! 

Evviva il Re, che non c’era ! Sia lode all ‘umile pezzo di legno!

Ancora ci sarà spazio per esser salvati, mentire, purgarsi, seminare monete, farsi derubare, finire in prigione, esser presi alla tagliola, far da cane da guardia, volare con un colombo, andare su un’isola, promettere di studiare, picchiarsi con i compagni, rischiare di essere fritti, andare a Bagni di Lucca con Lucignolo, divenire asino, fare i pagliacci, rischiare l’annegamento, essere inghiottiti da uno squalo, ricongiungersi con il padre e divenire un ragazzo di carne.

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Abbisogna ora documentare che esista una certa critica letteraria che riconosce nell’uomo Pinocchio una figura di “Alter Christus”…

Se pensiamo alle parole pronunciate negli ultimi istanti di vita da Pinocchio è impossibile non riscontrarvi il senso – e perfino la metrica – di quelle dette da Gesù sulla croce.

Secondo i Vangeli di Marco e Matteo le parole di Cristo furono infatti:

“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”

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In effetti la storia scritta da Carlo Lorenzini, che era cattolico,  contiene degli assunti morali ed etici di grande profondità ed ispirazione cristiana, ma vi sono anche tratti di tipo fantastico, politico, popolare, grottesco e drammatico…. come , ad esempio, l’episodio dell’impiccagione!

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Perché proprio un’impiccagione ? 

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Le più tristemente celebri del periodo risorgimentale furono quelle dei Martiri di Belfiore dal 1851 al 1855 . Qui,  110  patrioti , furono giustiziati dagli austriaci e successivamente alla prima guerra di indipendenza, per aver congiurato contro l’Austria.

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La storia è assai più semplice ed ancora una volta collegata al territorio.

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Il paese di Lugliano, dove ha sede il nostro bel secolare frassino, deve probabilmente in suo nome a “Lucus Jani”, luogo di Giano, in quanto secondo la leggenda, il primitivo insegnamento sorse su un bosco sacro consacrato al Dio Giano. 

Tralascio la leggenda che vuole che vi sia un tempio di Giano nascosto a Lugliano e che esso contenga una statua d’oro massiccio a lui dedicata, per arrivare al dunque…

Dirigendomi nella località “castello” evito, inoltre, di passare per le varie gallerie  che attraversano l’abitato luglianese collegando tra loro le varie cantine e “stanze segrete”…

Dall’unica strada percorro il lastricato di pietra senza soffermarmi ad ammirare il mutare delle costruzioni di pietra, la differente consistenza o assenza della malta, la diversa sagoma delle pietre utilizzate in epoca romana o medievale…

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Eccomi arrivato!

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Il sasso sta ancora lì, una mensola in pietra neanche troppo sporgente dall’edificio in cui è stata fissata e neanche troppo in alto rispetto al suolo.

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D’altronde, per impiccare una persona “finché morte non sopravvenga”, è sufficiente che non tocchi i piedi per terra anche soltanto di dieci centimetri !

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E’una pietra pacifica e insospettabile che potrebbe servire per qualsiasi funzione o, senza nessuno scopo, semplicemente ornare un muro.

A questo sasso, secondo la leggenda, si appendevano i condannati.

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La Lugliano del Grande Frassino ha anche un “Sasso dell’Impiccato”!

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de Il Lustro

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il Lustro
dario.barsotti@hotmail.it
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