San Romano, il grande restauro

San Romano, il grande restauro

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IL GRANDE RESTAURO DELLA CHIESA DI SAN ROMANO (1661-1664)

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di Nicola Bianchini

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Carissimi amici, vorrei raccontarvi (e ci vorrà un po’ di tempo e più puntate) la vicenda del grande progetto di ammodernamento di una delle più belle e monumentali chiese di Lucca: San Romano.

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La storia è raccontata in un manoscritto custodito alla Biblioteca di Stato di Lucca, che ebbi modo di leggere anni fa, scritto nel 1671 da padre Giuseppe Trenta.

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Nella sua “semplice narrativa” di memorie, riferisce con grande perizia i lavori di restauro architettonico che interessarono la chiesa del convento domenicano di San Romano di Lucca dal 1661 al 1664.

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Il frate all’epoca svolgeva anche mansioni di tesoriere del convento per cui dal suo resoconto possiamo desumere informazioni assai precise sul progressivo avanzamento dei lavori e sui costi dei diversi lotti.

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La spesa sostenuta dal convento in quei quattro anni di lavori fu enorme e mise in seria difficoltà le finanze del convento.

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Molte amarezze e qualche buona sorpresa (poche in verità) si susseguirono nel tempo ma il cronista più volte giustificò l’assoluta necessità di salvaguardare la continuità di quel luogo sacro che rischiava imminente e completa rovina, al punto che era ormai disertato dai fedeli per la paura che crollasse su di loro.

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L’edificio esistente era stato avviato alla fine del Duecento (se ne vedono i resti nel bellissimo paramento murario in pietra chiara sul lato verso la piazza), e ampliato nella parte absidale nel 1373, aggiungendovi cappelle e una nuova abside, secondo lo stile conventuale.

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Ma l’edificio aveva gravi problemi, e col procedere del cantiere se ne scoprirono di nuovi e di gravissimi. Bisognava quindi mettervi mano ma non era cosa da poco.

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Secondo l’incrollabile fede frate Giuseppe, alla fine di ogni traversia fu chiaro che quel cantiere era stato benedetto da Dio e dalla Vergine Maria e ciò era dimostrato dal fatto che durante tutto il periodo non si verificarono mai incidenti sul lavoro, tranne uno dovuto più a sbadataggine che altro.

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L’INIZIO DEI LAVORI

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La cronaca si apre con una desolante descrizione dell’avanzato stato di degrado della chiesa di San Romano ed in particolare del tetto.

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In più punti appariva in uno stato assai precario tanto che era stato necessario sostenere dei travi “con forti puntelli in alcuni luoghi dove si giudicava più evidente e prossimo il pericolo”; ma era comunque una soluzione provvisoria e non risolutiva, anzi il frate sottolinea che la situazione andava peggiorando molto rapidamente tanto che i fedeli iniziavano a disertare le funzioni.

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Inoltre, ancora oggi è facile osservarlo, gran parte del muro nord aveva ceduto, strapiombando pericolosamente verso l’interno.

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Per far fronte a questa grave emergenza i Padri “stabilirono prontamente di venire a più forte e salda puntellatione servendosi a questo fine di grosse e lunghe antenne che giungessero da alto abbasso della chiesa, confidando con questo mezo di richiamare la devotione del popolo intimorito”.

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Ma poi bisognava passare all’azione e le opzioni furono queste:

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1. Sostituzione solo dei travi che minacciavano di cedere;

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2. Sostituzione integrale di tutti i travi (del resto, anche se non tutti erano in condizione di imminente cedimento, quasi tutti erano storti o fuoriusciti dal loro alloggiamento nelle murature;

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3. Sostituzione delle travature e rimessa in sesto di quelle fuori posto e creazione di una soffittatura non meglio precisata;

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4. Ristrutturazione generale della chiesa con costruzione di una volta “reale” che sostenesse il tetto.

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Con una buona dose di coraggio e fede si decise l’ultima delle proposte; frate Giovanni Bonursi, uomo di “ingegno raro si nelle cose theologiche” e nel “disegno molto intendente” fornì il disegno sia della volta che della chiesa e, una volta ultimato, il progetto fu sottoposto all’esame di “Francesco Buonamici primo Architetto della città”.

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Ottenuta quindi la sua approvazione i lavori iniziarono il “primo giorno fatta la Pentecoste, che fu il mercole alli 8 di giugno dell’anno 1661”.

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PARTE SECONDA

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Il progetto approvato fu quello poi effettivamente realizzato e che ancora oggi si può osservare, salvo piccole modifiche rese necessarie per venire incontro alle esigenze e agli imprevisti che si presentarono in corso d’opera.
Il nuovo disegno prevedeva una soprelevazione della chiesa per accogliere una copertura a volta in muratura, una volta “reale”, come si legge, e non una semplice forma estetica senza alcuna funzione strutturale.

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Ma dove trovare le risorse? I Padri avevano un po’ di cassa ma serviva molto di più. Le questue si intensificarono e le elemosine pure ma infine i confratelli decisero di “privarsi e spogliarsi d’un superbo e magnifico parato di Damasco cremesi con trine d’oro ricchissime” molto antico. A Lucca non riuscirono a piazzarlo ma a Roma sì, ricavandone ben 1176 scudi romani. Il Comune di Lucca venne in aiuto ai frati con altri finanziamenti e all’inizio dei lavori si poteva contare sulla cifra di 3000 scudi.

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Il cantiere iniziò all’interno della chiesa con la costruzione dei grandi pilastri addossati alle pareti che scandiscono la navata in modo da creare nuovi appoggi stabili per sostenere la grande volte che si aveva in progetto di realizzare. Le fondazioni, secondo la cronaca, erano profonde ben 17 braccia e si racconta che chiunque si affacciava per vederle provava grande “spavento sembrando voragini” e non dev’esser difficile crederlo perché 17 braccia corrispondono a ben 10 metri, una misura che pare davvero eccezionale!

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Padre Trenta nata che in chiesa c’erano montagne enormi della terra scavata che dicevano essere rimosse. Questa prima fase, che iniziò dal presbiterio per liberare al più presto la zona degli altari, procedette con grande velocità e la cerimonia della posa della prima pietra avvenne il 19 di giugno del 1661. Già a fine settembre tutte le fosse erano scavate e allo stesso tempo seguiva la costruzione vera e propria dei grandi pilastri.
La partecipazione dei lucchesi all’impresa fu lodevole, “concorrendo i popoli a gara a porger aiuto con le loro fatiche e sudori, et in particolar i buoni huomini della Quoieria che a truppe di 40 e 50 per volta accompagnati da moltitudine grandissima di calsolari tutti concordi senza interesse di premio sospinti dalla sola devotione verso la Vergine del Rosario e della Patriarca San Domenico, portavano fuori di chiesa quelle vaste montagne di terra con tanta prestezza che apportavano stupore a chi li rimirava”.

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I lavori erano veramente faraonici e la chiesa tutta sottosopra, tuttavia, nonostante gli ovvi disagi, “Basta solo dir questo: che la consueta devotione del Santissimo Rosario che è l’unico refugio di tutti in generale già mai si è interrotta e tralasciata con la frequenza dell’istesso popolo, e se dicessi da vantaggio non direi bugia. E se bene la polvere grande, i romori de’ martelli, le voci della moltitudine de’ lavoranti per se stesse erano sufficienti a licentiarli dalla chiesa con tutto ciò non è seguito senza un grande exempio et edificatione nostra veder il popolo tutto e singolarmente la nobiltà non stimar inclemenza alcuna continuare il medesimo ossequio alla Beata Vergine, sospinti mi credo ad una ben anticha e radicata loro devotione e questa nostra chiesa dove si ritrova la vera calamita di tutti i cuori loro, dico la Vergine Santissima del Rosario e l’imagine prodigiosa e miracolosa del nostro Patriarca San Domenico, dalla protettion de’ quali riconoscono ogni loro avanzamento e consolatione spirituale”.

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Il 30 di marzo del 1662 furono completati tutti i pilastri e furono già installati “i palchi de’ dui organi a loro luogo per poter poi la futura e vicina Pasqua di Ressurrectio far le solite solennità delle musiche che si costumano fare in quelle tre sere a notturni nella nostra chiesa”.
Tutto pareva procedere quindi a gonfie vele e invece i guai non tardarono ad arrivare e furono guai seri.

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PARTE TERZA

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Ultimati i pilastri poteva iniziare la fase più complessa, ovvero l’innalzamento della chiesa e la costruzione della nuova volta e del nuovo tetto.

Il punto d’inizio sarebbero stati la costruzione dei grandi archi trionfali che scandiscono longitudinalmente la chiesa e la costruzione del cornicione e dell’imposta della volta.

Eravamo ormai nei primi mesi del 1663 ma la fabbrica ebbe un brusco arresto poiché si verificò che le murature della parete nord della chiesa erano “cattive e vote del tutto che in riempirle et aggiustarle, oltre alla longhezza del tempo, portorno una spesa grandissima”.

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È noto che la tecnica edilizia medievale prevedeva spesso un muro a sacco, ovvero due camicie di rivestimento esterne e un riempimento spesso incongruente, annegato in gran quantità di calce.

Spesso accadeva che nel realizzarlo veniva utilizzata poca perizia e materiale inadeguato (un problema come quello che ha impegnato a lungo i restauratori nel transetto nord di San Martino) e col tempo il ‘sodo’ murario si andava deteriorando, rendendolo inadeguato a sostenere ulteriori carichi ma soprattutto rendendolo estremamente fragile a qualsiasi tipo di sollecitazione.

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Ma non c’erano alternative: scoperta la magagna, andava risolta.

Superata anche questa difficoltà, si portarono a termine entrambi i fianchi della chiesa e si pose mano alla controfacciata: “tanto brutta e sverzata che tutti exclamavano che bisognava farla, che avrebbe dato il compimento a tutto”.

Purtroppo non si fa alcuna menzione di quale fosse la forma o la decorazione della parete prima del riassetto.

Sappiamo comunque che il progetto dell’architetto Buonamici “fu così vago e bello che da tutti si bramava vederlo effettuato”.

La cronaca non specifica quando fu completata ma sicuramente tra febbraio e i primi di marzo del 1663.

A questo punto i lavori ebbero una breve sospensione per lasciare spazio alle festività di Pasqua e comunque c’era bisogno di una pausa di riflessione.

Fino a quel punto i lavori alla chiesa, seppure impegnativi, si erano svolti senza ostacolare troppo la funzionalità della chiesa e dei suoi uffici liturgici e quindi senza troppo disagio per i fedeli.

Adesso bisognava però decidere il passo più importante, più lungo e più costoso: l’edificazione della volta. Per realizzarla era necessario iniziare a scoprire il tetto, innalzare le murature e quindi in pratica rendere inagibile la chiesa, seppur parzialmente, per far posto ai sostegni delle centine.

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Tuttavia, le spese impreviste per consolidare il fianco nord avevano impegnato molte risorse e adesso in cassa rimanevano appena 200 scudi.

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LA CONCLUSIONE

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Ormai bisognava andare avanti e iniziare la grande volta di copertura. Per realizzarla era necessario iniziare a scoprire il tetto, innalzare le murature e quindi in pratica rendere inagibile la chiesa, seppur una porzione per volta, per far posto ai sostegni delle centine.

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I lavori iniziarono sopra il presbiterio con il puntellamento dei travi andati fuori luogo quindi vennero montati grandi ponteggi all’interno e all’esterno della chiesa con un allestimento tanto spettacolare che da solo suscitava meraviglia negli osservatori.

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Per disgrazia del cantiere tutta la primavera e parte dell’estate fu caratterizzata da frequenti e violenti acquazzoni che impedivano la buona prosecuzione dell’opera causando un gran danno non solo a tutto l’impianto di tavolati, puntelli, funi e travature ma addirittura a coloro che dovevano cuocere i mattoni. Per fortuna un anonimo benefattore donò alla fabbrica ventimila mattoni e “quadroni” venendo così incontro alle impossibilità dei frati.

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Sembra di capire dalla cronaca che durante l’inverno del 1663/64 i lavori edilizi alla copertura della chiesa furono sospesi e si preferì dare un compimento ai lavori fino ad allora eseguiti come la creazione del “fenestrone di fondo con l’altre due fenestre da basso, con farci i suoi ornamenti di stucchi, con scialbare et imbiancare le dui parte della volta fatta per farla veder compita a tutto il popolo per la Santa Pasqua”.

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Anche l’estate del 1664 fu problematica perché la stagione era caldissima e senza piogge e si temeva che la calce avrebbe tirato troppo rapidamente a danno della stabilità della struttura. Contro ogni difficoltà il 28 settembre vennero sgomberate tutte le attrezzature all’interno della chiesa mentre rimasero i ponteggi all’esterno per “dar fine al cornicione che riguarda la strada” e anche l’ultima parte della volta conclusa il 21 di novembre.

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I lavori di edilizia della chiesa erano così terminati. Rimanevano i lavori di rifinitura e non erano pochi. Le finestre sopra il cornicione andavano decorate e mancando dei vetri vennero sigillate con tavolati. In onore della Vergine fu completata la campata del suo altare “con la sua vetriera et ornamento di stucco”; similmente venne completata quella corrispondente all’altare di San Domenico. In breve tempo furono chiuse con vetri anche le tre finestre della facciata.

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Gli ultimi lavori furono quelli di costruire la cappella del presepe e un’altra di Cristo morto in controfacciata e quindi la decorazione della chiesa. Si iniziò dall’altare della Vergine con il sostegno finanziario del Signor Ottavio Bianchi il quale, per personale devozione lo fece “abbellir con stucchi e marmi” oltre ad “un bellissimo pulpito di marmi di Carrara, con due pitture fatte a fresco nel muro”.

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Allo stesso modo l’altare di San Domenico venne affidato alla mano del maestro stuccatore Lorenzo Aldibrandi di Milano. Costui, assieme al fratello ed al cognato lavorò tanto bene che i frati concordarono con lui la decorazione del resto della chiesa; il tutto per la cifra di 330 scudi.

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E così la grande impresa ebbe termine, consegnando ai posteri uno dei più bei monumenti barocchi lucchesi, monumentale, elegante e ponderato, come si addiceva all’ordine domenicano.

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L’originale manoscritto della “Relatione della restauratione di S. Romano” di frate Giuseppe Trenta è conservato alla Biblioteca di Stato di Lucca.

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di Nicola Bianchini

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il Lustro
dario.barsotti@hotmail.it
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