Bugie da Pinocchio

Bugie da Pinocchio

Prefazione 

Non me ne voglia nessuno per queste mie “Bugie da Pinocchio”; sono soltanto piccole e innocue menzogne – assai verosimili – , che intendono fornire una diversa versione di quella che fu la grande ispirazione di Carlo Lorenzini.

“Le avventure di Pinocchio” , le uniche e inimitabili, rappresentano, oggi come ieri, un testo dalla valenza del gran romanzo classico e si possono leggere, al pari di un antico testo sacro, riconoscendovi mille simbologie e significati che non andrò a elencare perché già altri lo hanno fatto.

Non me ne vogliano dunque i cultori del libro perché mille rivisitazioni del capolavoro collodiano sono già state edite e mille ancora ve ne saranno a consacrare la fama del “nasuto”protagonista , il premiato racconto e il suo stesso visionario creatore.

Non me ne vogliano gli intenditori di storia, geografia e toponomastica; tengo a mente che queste sono materie serie da intenditori e categorie e professioni alle quali il sottoscritto non appartiene neppure lontanamente.

Coloro che invece credono alle fiabe, leggono col cuore sognante dei bimbi, provano amore e percepiscono vive, le radici per la propria terra,  si approccino con poca pretesa alle mediocri righe e illustrazioni che ambientano luoghi e personaggi di uno inedito Pinocchio in queste splendide valli e incontaminate montagne.

Lo sanno anche i muri che il Paese dei balocchi era Bagni di Lucca, ma che Lucignolo vivesse a Lucignana, che il pesce-cane si chiamasse Botri, il Botri dell’Orrido, che Prato Fiorito producesse miracoli, che la Fata risiedesse sul torrente Camaione , che Leopoldo II avesse i capelli “polendini” come Geppetto, sono e restano essenzialmente un mucchio di strampalate teorie da non enumerare neanche tra quelle dal “naso lungo” o dalle “gambe corte” .

Queste bugie sono falsità mai viste o sentite, diavolerie aggiustate come i piedi bruciacchiati di un burattino, ilarità goliardiche da gatto o da volpe di provincia che ho voluto descrivere in questo stupido abbecedario e titolare, come giusto e rispettoso:

“Bugie da Pinocchio”.

L’autore

 

Ai tempi di Pinocchio

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C’era una volta…”

“Un Re?”

“No, un pezzo di legno! ”

( Capitolo I )

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Un incipit tipico favolistico. Il classico preludio che accarezza, senza svelare, un tempo senza tempo, un’epoca indefinita, la quale comunque ad un certo punto, è stata.

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L’introduzione alla favola di Pinocchio, una fiaba che di “fiaba” ha ben poco, avvia ad una  lettura ( e rilettura ) che apre ogni volta nuovi scenari pregni di simboli, riferimenti storici, assunti morali e religiosi dalla profonda complessità, quasi, di un testo sacro.

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Dei testi sacri d’altronde Pinocchio ha gli stessi numeri in tirature editoriali, se si considerano le pluri traduzioni, le edizioni teatrali e cinematografiche che l’hanno portato ad una diffusione planetaria fin dalla sua prima uscita a puntate alle ultime versioni digitalizzate.

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Non è un caso che un noto attore di teatro definisse “Le avventure” un autentico romanzo dalla valenza letteraria e ricchezza nella trama, superiore al tomo manzoniano de “I Promessi Sposi” .

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È altresì innegabile che il racconto affascini piuttosto un pubblico adulto quando invece, quello più giovane, preferisca la versione cinematografica, animata o illustrata.

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Un “tempo” e un “Re”, due concetti assai labili, così labili che il primo non venga mai specificato nel libro mentre il secondo cessi irregalmente d’esistere già dalla seconda riga venendo, il coronato, spodestato da un modesto “pezzo di legno”.

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Per definire il tempo di Pinocchio risaliamo questo umile “albero”, produttore di semplice legna da catasta ( quindi da ardere ) ed arriviamo in un paterno bosco ove è inevitabile lo smarrirsi nella vasta genericità delle specie vegetali e nelle innumerevoli mappe topografiche delle tante colline toscane.

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Ma da dove viene questo semplice legno da catasta destinato ad ardere in un camino? Forse da un paterno bosco, ove è inevitabile lo smarrirsi nella vasta genericità delle specie o dalle tante coline toscane, coronate da innumerevoli varietà di monti.

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Ma questo legno-burattino-bambino dovrà certamente aver avuto un padre…

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Non credo sia un grande azzardo affermare che il padre di Pinocchio fosse lo stesso Carlo Collodi, suo visionario creatore, così come il suo babbo, nella finzione del narrato, fosse quel Geppetto detto “Polendina” per la sua candida e ingiallita parrucca.

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I tempi di Geppetto, ossia quelli rinvenibili dal narrato, sono verosimilmente quelli di Leopoldo II di Lorena , il Granduca di Toscana. Lo si evince dai nomi delle monete citate nel libro…un “soldo” valeva ben 3 “quattrini” e 400 quattrini facevano uno “zecchino” d’oro. Questi diversi tipi di conio sono spesso nominati nel testo e, per attualizzarne il valore, si ricorda che con un soldo si poteva acquistare circa mezzo chilo di carne ( alimento di lusso e privilegio di pochi ).

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“Invece dei quaranta soldi luccicavano nel portamonete ben 40 zecchini d’oro nuovi di zecca.”

( Capitolo XXVI )
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Geppetto, (babbo di Pinocchio) e Leopoldo II, ultimo Granduca di Toscana, “babbo” dei tempi del racconto, avevano tra l’altro in comune la bionda capigliatura: il falegname indossava una parrucca, il nobile era, per così dire, “un parruccone”.

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Leopoldo, governante dal 1827 al 1847, acquirente del Ducato di Lucca da Carlo Ludovico di Borbone, fu un oculato regnante, molto religioso e poco mondano, che a Bagni di Lucca si mostrò soltanto per il quotidiano giro in carrozza annunciato da un rintocco di campana.

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Il biondissimo e bacchettone austriaco fu soprannominato dai soliti toscani burloni e irriverenti come “Canapone” , per via dei fluenti capelli color della canapa…non mi sorprenderebbe che il Lorenzini avesse usato invece l’appellativo “Polendina” onde citarlo nel racconto, per evitare di render troppo esplicito il riferimento.

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I tempi dello scrittore Lorenzini, invece, sono la restaurazione ed il risorgimento o più semplicemente il passaggio dal Congresso di Vienna all’unificazione del Regno italico.

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Un’epoca in cui i vari aristocratici si vanno a riappropriare dei loro possedimenti, un tempo usurpatigli dell’imperatore dei francesi. Il “no alle repubbliche” diviene l’imperativo di un tempo in cui i vari sconvolgimenti approderanno alla ridefinizione delle nazioni tra cui quella italiana.

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Ma partiamo da prima…

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I cinque decenni antecedenti la nascita dello scrittore sono stati caratterizzati da un personaggio ingombrante, determinante e discusso, la cui fama e discendenza resteranno protagonisti ancora per molti anni: Napoleone Bonaparte.

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Avrebbe il Lorenzini potuto tralasciare nel suo Pinocchio una così importante figura?

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I Bonaparte, nobile famiglia corsa, salgono alla ribalta con il generale Napoleone, statista e primo imperatore dei francesi che mise insieme tutta l’Europa occidentale per poi sconvolgerla nuovamente con la rovinosa disfatta di Waterloo.

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Il figlio, Napoleone II , soprannominato l’aquilotto, sarà imperatore per soli due giorni, di fatto senza mai essere riconosciuto come tale dai francesi e senza mai governare la Francia.

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Ho conosciuto un’intera famiglia di pinocchi e se la passavano tutti bene…”

( Capitolo III )

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Di tutta questa famiglia di “poveri pinocchi”, le cui vicissitudini politiche sono state assi travagliate determinando un’inevitabile decadenza del casato, ci si deve soffermare sul Coronato coevo del Lorenzini che in Bagni di Lucca soggiornò lungamente.

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Il casino di caccia di Benabbio ed altre prestigiose residenze allocate nella val di Lima, furono le alcove amorose, le case di vacanza e il rifugio del cugino di Napoleone II, il Carlo Luigi Napoleone Bonaparte che fu poi Presidente della Repubblica e quindi Imperatore dei francesi regnante col nome di Napoleone III.

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Un autentico Pinocchio, o meglio per eccellenza, l’avventuriero Pinocchio dell’epoca.

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Carlo Luigi fu una figura di spicco che seppe destreggiarsi tra le fugaci avventure galanti e le grandi manovre politiche che stavano ridisegnando l’Europa e quindi l’Italia. Grandi successi alternati a pessime sconfitte considerato che si trovava spesso coinvolto in fughe rocambolesche, arrestato, condannato, carcerato, esiliato al pari del burattino collodiano.

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Victor Hugo, uno dei massimi scrittori dell’800 e autore de “I Miserabili”, appellerà Napoleone III col nomignolo “Le Petit”, un Bonaparte più piccolo che mai diventerà grande come l’originale Napoleone, una sorta di burattino che nelle tante vicissitudini approderà a non divenire un uomo come lo zio, ma un nuovo “petit” bambino…

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Fu soprannominato anche Napoleone “Badinguet” dal nome di un operaio al quale aveva preso in prestito gli abiti e molte sono le dicerie che lo ritraggono “travestito” per fuggire all’ira di qualche marito al quale stava momentaneamente sottraendo la sposa.

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Napoleone III, presente fin da ragazzo nella ridente cittadina termale, fece ritorno nella Val di Lima intorno al 1830 quando un suo colpo di stato fallì “miserabilmente”. Qui, nascosto da Carlo Ludovico e lontano dai suoi oppositori, attese tempi più tranquilli per rientrare nella sua nazione.

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Il casino di caccia messo a sua disposizione dal borbonico era quello di Benabbio nella località Belvedere, il luogo da cui si può ammirare tutta la bellissima Bagni di Lucca.

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Per la cronaca, è leggenda più recente ma sempre di leggenda si parla, che il Collodi, scendendo da Benabbio verso Bagni, soffermandosi ad ammirare il paesaggio dal Belvedere, avesse pronunciato le parole ” Ecco, questo è il Paese dei Balocchi!”.

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Si deve ora sapere che Carlo Lorenzini fu un critico assai attento e sagace degli avvenimenti politici che interessarono la sua terra.

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All’epoca dei moti del 1848 fondò una rivista di satira umoristico-politica dal nome “Il Lampione” e prima di dedicarsi all’editoria per bambini fu un uomo culturalmente impegnato e anche un patriota arruolato nel reggimento sabaudo.

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Sarebbe quindi una tesi così assurda pensare che il Lorenzini si fosse ispirato alle vicende del terzo Napoleone e abbia voluto mettere in satira persone, ambienti e modi di vivere dell’epoca?

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Un cronista ed intellettuale attento come Carlo Lorenzini, peraltro con una gran vocazione storica ed umoristica, condividendo con Napoleone III l’epoca, i luoghi e gli avvenimenti, potrebbe in qualche modo aver dedicato queste due righe sulla “Famiglia di Pinocchi” al nobile tanto discusso nelle cronache del tempo e perché no, avergli dedicato il nome Pinocchio.

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Una curiosità:

“Pinocher” variante del verbo “Pignocher” significa in francese “mangiare senza appetito, speluccare” ma anche, in senso figurato, “compiere piccole ruberie”.

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Il tema della fame ed anche del furto sono delle costanti che accompagnano il protagonista nell’intero racconto.

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La dimensione di Pinocchio

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“Voglio servirmene per fare la gamba di un tavolino!”

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La dimensione di Pinocchio è senz’altro una dimensione fantastica ma anche umana.

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Definendola “umana” come non associare questa straordinario viaggio fatto di avventure ad una evoluzione esistenziale dell’autore stesso, compiuta tra le varie peripezie che si compiono nella vita di ciascun uomo?

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La capacità dello scrittore, che è poi un’arte, l’arte del narrare, è il mezzo per dare sfogo all’esigenza sociale di comunicare.

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Trattando di Pinocchio, poco importa se il messaggio sia più o meno palese, finalizzato, politico, morale o soltanto romanzesco.

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È indubbio che il Lorenzini abbia arricchito il più famoso burattino al mondo con un po’ di sé, del piccolo Carlo, dell’adulto Lorenzini e soprattutto dell’alter-ego Collodi.

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L’autore approda al libro quasi sessantenne dopo un percorso letterario di tutto rispetto fatto di libri per ragazzi, lavori per il teatro, romanzi e anche poesie.

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Amo pensare che il piccolo Carlo, trovandosi dalla madre, cameriera presso Villa Garzoni, si recasse con i Signori di Collodi (che tanto lo avevano a cuore da farlo studiare) nella nobile Bagni di Lucca e che qui avesse appreso della storia e delle leggende della splendida Val di Lima.

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Questi luoghi, i loro miti e personaggi credo abbiano seguito il ragazzo, nel suo cuore (di legno di pino), fino all’età adulta, il cuore di una persona intelligente ed attenta (ma soprattutto dotata di una sensibilità unica).

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L’uomo, trovandosi a viaggiare nella provincia lucchese per motivi di lavoro, li ha poi riscoperti con uno sguardo più maturo ma non meno attento e disincantato.

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A questo punto, forte dell’esperienza del suo vissuto (e di una capacità artistica ormai affermata) ha deciso di condividere in questi racconti un po’ di Carlo, un po’ di Lorenzini e molto Collodi (con questo pseudonimo ha firmato “Le avventure di Pinocchio” e quindi il libro).

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Si sa, leggendo un libro dopo che lo si è visto rappresentato al cinema, nei fumetti, al teatro, nei cartoon e nelle illustrazioni, la nostra percezione della storia e dei personaggi rimane un po’ alterata, come se fosse condizionata dagli occhi di un’altra persona…

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La cosa più affascinante di un qualsivoglia libro ritengo sia la novità, la varietà, l’esclusiva interpretazione che esso assume in ciascun lettore, giovane o vecchio, colto o ignorante.

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Tutti noi, seguendo Pinocchio, abbiamo mentalmente figurato una certa fisionomia per il burattino, riconducibile ad una sorta di bambino dal fisico esile, ginocchia e gomiti snodati, lungo naso a punta, pantaloni al ginocchio e cappello a punta.

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Ma un bambino scolpito da un pezzo di legno che altezza potrà mai avere? Probabilmente non più di circa 60 centimetri considerata la portatilità e la lavorabilità della materia grezza.

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Non a caso il primo proprietario del legno animato, il falegname Maestro Ciliegia, voleva fare del pezzo il gambo di un tavolino.

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La dimensione del cranio potrà essere quindi, in proporzione, quella di una pigna di pino, un “pinello” come si dice in lucchesia. Quando Pinocchio si mette in capo la parrucca di Geppetto ne rimane quasi affogato.

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Lo stesso pinello che, disposto con la punta verso il basso costituirebbe l’ovale del volto , sistemato verso l’alto potrebbe servire come “forma” su cui lavorare della mollica di pane per ricavare un cappello.

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In questo caso il colore del copricapo, al contrario di quanto rappresentato talvolta nelle illustrazioni, nei cartoni animati, nel merchandising e nella filmografia potrebbe essere più verosimilmente il bianco.

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La faccenda del legno, quindi dell’albero e, perché no, del pino, non sarebbe altro che il legame con la terra che caratterizza ciascun individuo, ancorandolo al mondo con le radici, quindi al suo mondo o micro-mondo che è rappresentato dal suo territorio, dalla sua cultura, dalle tradizioni e dal tipico idioma.

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Il parlato dei personaggi di Pinocchio è spesso influenzato da lemmi, cadenze, sintassi splendidamente vernacolari sebbene il racconto abbia avuto una diffusione (o meglio, dimensione) planetaria.

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Il parlato di Geppetto, come avviene per quello del padre di Carlo, è quello fiorentino.

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“Gli è con questo bel garbo…?”

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La cadenza ed i lemmi che si incontrano successivamente sono un po’ lucchesi e un po’ toscani è spesso arcaici.

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Ed il viso?

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Trattandosi di un bambino, o di un burattino ad esso verosimigliante, chiunque abbia un po’ di praticità con il disegno sa bene che nel volto degli infanti gli occhi sono molto più grandi che negli adulti.

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La psicosomatica qui corre in aiuto, identificando, nei soggetti i cui occhi sono per dimensione e intensità predominanti nel volto, la casistica dell’uomo “orale”, un individuo con la tendenza a caricare il proprio carattere e modo di agire con grandi emozioni.

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Un uomo (o un bambino-burattino) , insomma, il cui punto focale ed energetico sia la testa, maggiormente dimensionata e vitale rispetto al resto del suo corpo.

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Altro elemento normalmente predominante nel volto di questo individuo sarà la bocca, un po’ come in tutti gli infanti, soprattutto nei soggetti orali la cui necessità di comunicare la propria emotiva interiorità è cosa vitale. Una bocca grande e, con molta probabilità, ricca di denti dove, i due incisivi centrali “di latte” siano anch’essi molto appariscenti. Due “pinelle” (come si dice a Lucca) di un ragazzo di carne (o legno) secco e lungo come il gambo di un tavolino. Per citare un altro termine tutto lucchese un “pinellone lungo e biscaro”.

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E il nome?

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Da qui il corso è breve: nel crudele rituale dei bambini di “appioppare” soprannomi ai coetanei, definire un amico “pinelle e occhi”, “pinellocchi”, “pinocchi” o “PINOCCHIO”, è un gioco da ragazzi!

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Il Mangia-foco di Barga

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Arlecchino smise di recitare:
– Per tutte le stelle del cielo! Quello che vedo là in fondo è il Pinocchio”

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È abitudine del parlato barghigiano, ma anche di quello garfagnino, di precedere il nome di persona dell’individuo al quale ci si riferisce con un articolo determinativo singolare.
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Così riferendosi a Ugo si dirà “l’Ugo” , a Cristoforo si pronuncerà “Il Cristoforo” e per Maria diverrà “La Maria”.
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Una prassi diffusa anche in altre province italiane, specie aldilà dell’appennino, che non ritengo abbia un senso specifico o, se ne ha uno, è forse quello di identificare come unica quella persona che si sta menzionando ; di Maria, nome comunissimo tra i devoti e non, ce ne sono molte, ma “la Maria” è una e solo una.
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Un omaggio rispettoso nel parlato?
Un riguardo per la persona nominata per farla sentire “speciale”?
Una gratuita lusinga che tiene “da conto” sia l’interlocutore e l’interlocuito?

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Ecco il Giovanni!”
“Devo dirlo all’Andrea”
“Hai visto il Paolo?”
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Da questo pindarico ragionamento parto a spiegare il titolo dell’articolo “Il Mangia-fuoco” che vuol giocare con le due letture ad esso applicabili che sono ( o vorrebbero essere ) “Il SIGNOR Mangia-fuoco di Barga” ma anche “COLUI che a Barga mangia il fuoco”.
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Scrivendo semplicemente “Mangia-fuoco di Barga” tutto quello che “anderei” a dire avrebbe un gusto meno sapido ed anche meno misterioso mentre, è regola di ogni scritto ( e anche qui il Pinocchio di Carlo Collodi-Lorenzini insegna ), che le vicende si svelino poco alla volta lasciando il giusto suspense…

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Tutto noi conosciamo la città di Barga, uno dei borghi più belli d’Italia che, “sistemato” sul colle Remeggio, domina la media valle del fiume Serchio.
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La sua storia è davvero antica e importante e, per quanto fino ad oggi documentato, inizia dai liguri, passa dai romani, quindi dai longobardi, i marchesi di Toscana e, nelle dispute “comunali” lucchese-pisane, sceglie la Firenze medicea.
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Un “curriculum” lungo almeno tredici secoli, trascorso parallelamente a quello di Lucca sempre affrancandosi dalla vicina e potente repubblica, mantenendo la sua splendente e prestigiosa autonomia sia politica che religiosa.
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È questo lo stesso orgoglio barghigiano dei tanti emigrati che recondosi all’estero, soprattutto nel Regno Unito ed in America, si sono distinti in vari campi e, in molti casi, hanno fatto un giorno ritorno nella terra natia.

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Simbolo di Barga è il duomo, luogo ricco di fascino e mistero, chiamato la “Collegiata di San Cristoforo”, legato a molte leggende ancor testimoniate da immagini e iscrizioni ( tuttora non svelate ) di matrice templare.

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Ma torniamo al titolo...
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Nell’intento di documentare, l’ispirazione di Carlo Lorenzini su Pinocchio , come collegata ai territori lucchesi e della Media Valle del Serchio, ho più volte immaginato il personaggio di Mangia-Fuoco, questo burattinaio circense crudele ma fondamentalmente tenero, associandolo alla zona di Fornaci di Barga.
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Ai tempi di Collodi il paesino consisteva di poche case localizzate nella zona più vecchia che porta, da Loppia, a Barga.
Il piccolo agglomerato era una semplice appendice della potente città sul colle sovrastante ma, nei tempi di Lorenzini, vantava già alcune fornaci in cui venivano prodotti i sempre più in voga laterizi da costruzione.
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Da qui il nome del paesello ( fornace, fornaci, forno, forni, fuoco, fuochi e tutto il resto…) dove ancora si nota, arrivando dalla via Nazionale, una gran ciminiera residuo dell’attività pregressa.
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Niente a che vedere ha invece il nome “Fornaci” con la successiva attività di fonderia dei metalli, arrivata tra l’altro dal pistoiese, che si è avviata sull’inizio del novecento e attorno alla quale si è poi sviluppato tutto il centro e l’economia locale.
L’epoca è successiva agli anni del Collodi quindi tale specifica produzione metallurgica non sarebbe ricollegabile al fuoco quanto quella della “cottura” nelle bocche dei forni dei mattoni.
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Era invece molto rilevante ( e lo è tuttora ) l’importanza della città di Barga ai tempi dell’autore e, nell’intento di voler associare Il Pinocchio ai territori nostrani, un luogo così storico, magico e magnificente quale Barga non sarebbe potuto mancare a simboleggiare una qualche ambientazione o personaggio del romanzo collodiano.

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Perché Pinocchio sei venuto nel mio teatro?”

Urlò il burattinaio, un omone così brutto con una barGaccia nera che dal mento toccava per terra…”
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Una prima e più evidente liaison consiste senz’altro nella collocazione della collegiata del duomo che, in seguito ad una “rotazione costruttiva” avvenuta nel XII secolo, ha collocato il nuovo portale d’ingresso a favore del tramonto cosicché si potesse “gustare” ( o mangiare ) tutto il sole nel suo momento di fuoco.
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San Cristoforo, sul “cucuzzolo” più alto di Barga, vanta una panoramica terrazza con vista ad occidente sul profilo delle Alpi Apuane venendo soavemente illuminato in tutte le ore di sole: un’autentica “abbuffata” del calore e dello splendore di questa stella “nana gialla” la cui luce, in realtà bianca, filtrando l’atmosfera terrestre, assume nuance più calde oscillanti dal giallo al rosso fuoco.
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Un “pasto di sole” interminabile che, quando sembrerebbe esser concluso calando il sole dietro l’orizzonte alpino, si affaccia nuovamente passando per un’altra “bocca”: la sensazionale monofora naturale del Monte Forato.
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È questo un fenomeno bellissimo ed unico che avviene due volte nell’anno ( metà novembre e fine gennaio ) quando l’astro tramonta per ben due volte (affacciandosi cioè una seconda) e allineandosi perfettamente nell’arco del monte; una suggestione unica, questa illusione ottica del doppio-crepuscolo che ha affascinato l’uomo di ogni tempo ( e cultura ) e tuttora richiama un gran pubblico.
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I collegamenti tra il culto e l’astronomia solare sono fondamentali in tutte le religioni da quelle più primitive a quella egizia, dal paganesimo greco al cristianesimo.
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Cristoforo, letteralmente “portatore di Cristo”, nella mitologia cristiana e ortodossa, sembra fosse l’omone gigante dalle fattezze mostruose che traghettò sulle proprie spalle il bambino Gesù attraversando un fiume.
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Non a caso il Santo viene raffigurato con la testa di un cane ( così come il Dio Anubi che nel culto egizio conduceva le anime dei morti nell’aldilà ) e festeggiato il 25 luglio, inizio del periodo più caldo dell’anno detto “canicola” ( piccolo cane ): i 34 giorni in cui la stella più luminosa Sirio ( costellazione del Cane maggiore ) si uniforma nel nascere e morire al ciclo solare sono il suo lasso temporale di solleone.
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La “levata eliaca” , che nella sua ricorrenza annuale ( ogni 365,25 giorni ) ha dato origine al moderno calendario, veniva vissuta nell’antichità con gran misticismo, paura e speranza.
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Il doppio-tramonto “di bocca in bocca” illumina dal Monte Forato il duomo nel suo esterno ed interno facendovi anche ingresso, come per le famose piramidi, dal portale di San Cristoforo.
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Tralasciando poi la notevole ed abbondante simbologia templare ed esoterica presente nel Duomo ciò che è davvero stupefacente, tornando a Pinocchio, è la decorazione medievale posta a lato ( nell’ingresso originario e primitivo ) opera probabilmente di Biduino con soggetto il miracolo della “scifo d’oro”.
Una brocca d’oro, quella del coppiere ( cameriere addetto al riempimento dei bicchieri dei nobili ) Basilio ( o Adeodato ), bambino strappato ai genitori dai saraceni e ceduto all’emiro cretese Marmorino ( dalla lunga “mangiafuochesca” barba ).
Una parabola che passa per il distacco forzoso del bambino dai genitori e approda al ricongiungimento. Basilio, trascinato per i capelli da un impietosito San Nicola, verrà infatti restituito ai devotissimi genitori che avevano fatto preghiera di una sua intercessione.
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Il santo, commosso fino alle lacrime, si recherà in volo a Creta, accontentando i poveri coniugi.
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Non è questa in sostanza in sostanza la trama del Pinocchio di Lorenzini?
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Basilio è un bambino che si separa rocambolescamente dal padre e che, aiutato da un’entità benevola, si ricongiunge infine all’amato e sempre fiducioso genitore.
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Pinocchio lo stesso!

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Mangiafoco, quando si inteneriva, anziché piangere come tutti gli uomini, aveva il viziaccio di starnutire”
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Se immaginiamo la Cattedrale barghigiana come la testa di un uomo ( e il portale la sua bocca) il “grembiale” di barba che copre il petto e le gambe non sarà altro che lo splendido borgo di Barga che dalla collegiata arriva fini ai piedi del paese.
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I collegamenti della splendida Barga e del suo simbolico Duomo con l’opera di Collodi sono davvero notevoli e tutti, per mio parere, verosimiglianti.
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Se non fossero sufficienti quelli elencati ne svelerò ancora uno che reputo incredibile.
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La cattedrale di San Cristoforo testimonia il passaggio dei cavalieri templari che si insediarono nel castello barghigiano e tramandarono la loro tipica simbologia imprimendola nei marmi mediante graffiti.
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Un esempio tra tutti, la scritta misterica incisa sull’ingresso, la stessa presente in altri tre edifici religiosi toscani che, secondo alcune testimonianze, sarebbe stata presente anche nella chiesa lucchese di San Michele in foro.
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Importanti artisti hanno poi reso omaggio alla basilica con sculture, affreschi, bassorilievi e dipinti per tutto il medioevo.
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Si pensi ai due leoni che sorreggono il pulpito ma anche alle terracotta di scuola robbiana.
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Nel duomo barghigiano, vicino al pulpito, è poi visibile un graffito con un soggetto assai forte da rappresentarsi in un luogo sacro…

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Il disegno, assai stilizzato e basilare,

raffigura un impiccato.
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Un uomo ormai morto, così sembra, indossante una tunica, capo penzoloni, piedi rilasciati, braccia forse legate alla fune sopra la sua testa.
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Sopra si riconosce la carrucola, la corda con cui è stato tirato su, la forca, una specie di piedistallo.
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Anche Pinocchio fu impiccato, avvenne alla grande Quercia per opera di due “malanni”che si scoprirono essere il Gatto e la Volpe…
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Il caso vuole che l’uomo giustiziato abbia un cappello a punta ed un naso lungo come il becco di un uccello…
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Che il suo peccato sua stato di mentire con una pinocchiesca bugia?

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La Fata turchina nel torrente Camaione

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…Spuntò dalla finestra una bella bambina dai lunghi capelli turchini:
“Nessuno abita un questa casa. Tutti sono morti, io stessa lo sono.”

Cap.XV da “Le Avventure di Pinocchio”

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Le colline tutte della Val di Lima sono luoghi magici e incantati, densi di elementi ed energia.
La storia antica che li permea si perde nella notte dei tempi, nelle tradizioni e rituali dei popoli celtici ed anche dei più “autoctoni” etruschi.
I romani sono “faccenda” recente, di “appena” 2000 anni fa, più facilmente documentabile e, di sicuro, maggiormente inquadrabile anche da un punto di vista religioso e culturale.
Ciò che avveniva prima e così le credenze, i miti, gli aspetti leggendari, si alternava tra la venerazione di idoli naturali, il sacrificio animale , le pratiche tra il paganesimo e lo stregoneria e la più banale scaramanzia.

La diffusione del cristianesimo ha poi ridimensionato queste celebrazioni apportando un credo ufficiale ed unitario che, per quanto dogmatico,forte e capillare, non ha completamente represso molti dei miti, delle leggende e delle abitudini preesistenti.
Gli abitanti delle montagne, da sempre più isolati e reticenti al nuovo, hanno mantenuto alcuni aspetti dei precedenti retaggi; vuoi per il forte e radicato legame dei racconti coi luoghi, vuoi per una sorta d’orgoglio che è simbolo di appartenenza ad una terra e alle sue tradizioni…

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È pensiero diffuso tra molte persone del luogo che i boschi siano luoghi un po’ magici e che, per questo motivo, siano popolati da esseri strani .

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Il Linchetto nostrano è uno di questi, quanto agli gnomi, agli animali mitologici, ai diavoli e alle streghe ( detti “streghi” ) ne sono stati avvistati un po’ in ogni dove.
Alla semplice visione o miraggio si è talora aggiunta l’esperienza extrasensoriale del dialogo con essi , cosa che lascia pensare e che apre a tutta una serie di teorie che qui non è il caso di elencare.
Tra gli esseri fantastici censiti come abitanti dei boschi delle nostre colline troviamo, neanche a dirlo, anche le fate.
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Le fattispecie maggiormente diffuse sono in sostanza due; una “fata-vecchina” e una “fatina-volante”.
La prima è un’anziana sconosciuta signora dispensatrice di buoni consigli, conforto ed aiuto, che appare alla gente di paese , come in un sogno, per svanire prima che se ne accerti l’effettiva esistenza.
La seconda, molto simile alla popolarissima Trilly del cartoon Peter Pan, è un essere femminile di piccole o piccolissime dimensioni, semi-svestito, iridescente, dotato di ali vibranti e recante tra le mani una micro-lanterna o dei fiori.
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Nel comprensorio di Bagni di Lucca, sulla strada che porta a Casabasciana, sorge un paesello fatto di poche case, Sala, il cui toponimo, di derivazione longobarda, significa “luogo in cui si amministra la giustizia”.
La peculiarità di questa frazione è di avere un bosco magico, il “bosco delle fate”.
Non solo il paese detiene quest’area, ma un po’ tutti i pochi abitanti hanno uno stretto legame con le fate ed è quasi automatico, parlando di fate, che si nomini Sala.
Una tradizione orale fatta del passaparola tra nonno e nipote mantiene vivo il ricordo di leggende locali come quella che vuole che il giorno delle fate sia per San Giovanni, giorno corrispondente al solstizio d’estate, in cui queste si libererebbero nell’aria svolazzanti. Altre versioni vorrebbero che, sempre nella stessa astrologica data, fossero i tanti “streghi” del posto ( pensiamo anche a quelle di Prato Fiorito ) a finire spinti da un soffio nel fuoco per qui rinascere come fate.
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È il 1800, il secolo in cui Bagni di Lucca è grandiosa, un’autentica perla in Europa per tutta l’aristocrazia ed il Gotha mondiale; una meta irrinunciabile per i nobili, i letterati e gli artisti che qui si stabiliscono nei mesi estivi, soggiornano nelle case di amici, affollano i tanti alberghi ( più di 80 ), le esclusive terme e le sale da gioco. Sono gli anni in cui il popolino però è ancora piccolo , un po’ affamato e sballottato tra i vari padroni; un primo pugno di uomini parte per andare a cercar fortuna lontano da casa, alcuni recandosi oltreoceano altri invece migrando nel nord del vecchio continente. Sono queste le compagnie dei figurinai, artigiani del gesso, che armati di stampi, materiali e colori esportano un po’ della loro arte per pochi soldi.
Molti rimangono e saranno raggiunti dai familiari, altri tornano e portano con se anche storie, racconti e leggende che arrivano da lontano, da oltre le Alpi.
La tradizione di gnomi, elfi, folletti e fatine ha infatti forte radici nelle terre che furono dei celti ed è sicuro che una forte contaminazione, una nuova suggestione “fatata”, sia arrivata nella Mediavalle anche dopo tale periodo.
Questi nuovi miti si andranno a sommare a quelli esistenti arricchendoli o comunque confermando gli esseri magici locali.
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Così è anche per le fate benché una “casa delle fate”, a Bagni di Lucca, fosse già presente.
Era questa una casa che, nella prima metà del XIX secolo, fu identificata dagli abitanti come tale poiché vantava un triste primato…

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Il torrente Camaione che discende dai Monti di Villa, era un tempo più copioso nella sua portata sfociando, come oggi, nel fiume Lima di Ponte a Serraglio quasi ortogonalmente rispetto alla Villa Pieri ( oggi Fiori )
Nella sua gola umida e buia insistevano non poche basilari casette; un manipolo di abitazioni popolane che nella loro vicinanza si andavano quasi a confortare nella misera esistenza dei loro abitanti .

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“Pinocchio andò diritto diritto alla casa della Fata che era su quattro piani… bussò ancora e il battente di ferro divenne un’anguilla che sparì nel rigagnolo”. ( cap. XXIX )

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Questo ambiente malsano e non baciato dal sole, associato alle condizioni di malnutrizione ed all’impossibilità di curarsi da malattie oggi innocue o scomparse mieteva agli inizi dell’ 800 numerose vittime.
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Accadde che tutti i nati di una casetta, per vari decenni, non sopravvissero oltre i venti anni. Questo drammatico record di morti in tenera età si accanì su quelle famiglie che la abitarono infierendo così crudelmente così come soltanto la Vita talvolta riesce a fare.
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Una maledizione?
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Una casualità?
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Una causa chimica o medica comunque oggettiva che per quel tempo era inspiegabile?
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Sta di fatto che gli abitanti del posto nominano la sfortunata dimora come “la casina delle fate” e che la triste e maledetta vicenda che la “infesta”, balza alle cronache non solo locali ( le chiacchiere di paese e pettegolezzi da bar ) ma assume un’ eco piuttosto importante .
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Una storia più inquietante di un romanzo del terrore, un dramma che neanche il più bravo degli attori saprebbe rappresentare al teatro. Una vicenda così spaventevole e misteriosa che uno scrittore “locale” come Carlo Lorenzini difficilmente si sarebbe lasciato sfuggire…
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Le righe sopra citate del XV capitolo del libro per bambini “Le avventure di Pinocchio” hanno un tratto davvero da brivido e rispecchiano un gusto gotico da pieno periodo romantico già ampiamente diffuso in Inghilterra e quindi anche nella “britannica” Bagni di Lucca.

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Mi ricordano molto il dialogo di un film del 1999:

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Ora voglio dirti il mio segreto… … …
Vedo la gente morta… … …
Vanno in giro come le persone normali…”
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dal film “Il sesto senso” di M.Night Shyamalan
tra Haley Joel Osment e Bruce Willis

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Il Pratofiorito dei miracoli

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“Induve l’acqua bianca

doventa nera

lì è ‘r tesoro di Barbanera”

( Diceria popolare lucchese )

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Tutta la Mediavalle si lega, a mio parere, alla strepitosa storia di Pinocchio.

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Le peculiarità, i personaggi e gli stessi toponimi di questi luoghi raccontano un quadro che, secondo questa mia verosimile teoria ( documentata in pillole e illustrazioni ) rappresentano la reale ispirazione dello scrittore Carlo Lorenzini detto “Collodi” ( pseudonimo dal nome del paese della madre ).

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Il racconto, uno dei libri più letti al mondo, è stato interpretato sotto varie chiavi di lettura: morale, politica, religiosa, mistica, esoterica, fantastica.

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Questa mia lettura si va a sommare alle tante che riconoscono un po’ degli elementi di Pinocchio in giro per la Toscana.

Alcune legano la storia a Firenze, dove il Lorenzini visse per molti anni, a San Miniato dove il padre lavorò presso i marchesi Ginori ed altre persino a Lucca, città ampiamente frequentata dal Collodi per lavoro, dove lo scrittore aveva molti amici tra i quali un giocattolaio; le marionette di questo negoziante avrebbero, secondo alcuni, dato il La per la stesura della prima “Storia di un burattino” del luglio 1881.

 

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Già ho associato il paese dei balocchi a Bagni di Lucca, terra dei mammalucchi, le famose statuine di  cartapesta e di gesso ma anche paradiso del gioco e dei divertimenti con le sue terme e le sale da gioco.

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Detta associazione è cosa assai conosciuta nel posto tanto che vi viene festeggiata una giornata dal titolo “Il paese dei balocchi “.

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È sicuro che,  nei tempi di Lorenzini, il paese di Bagni rappresentasse una città di gran moda frequentata da nobiltà, letterati, artisti e da tutto il jet-set mondiale.

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È altrettanto sicuro che il Lorenzini, per recarsi da Collodi a Lucca, oltre che da Gragnano ( dove ancora si può ammirare la famosa quercia ), passasse per Benabbio scendendo nel paese delle terme…

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Il Prato Fiorito dei miracoli

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Molte sono le leggende legate al singolare monte “calvo” al cui apice si trova appunto Prato Fiorito.

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Parliamo delle streghe che qui si recavano a celebrare i propri riti, dei diavoli che vi si aggiravano liberi urlando o di un drago alato che, nei fragorosi giorni di nubifragio, dalle strette di Cocciglia sembra si elevasse in volo per atterrare in questo misterioso luogo.

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Alle leggende si accompagnano poi gli omaggi del sommo poeta Dante, si dice che vi si recò per scrivere il suo Inferno , del nostro Giovanni Pascoli ( vedi il racconto “La Cunella” ) e di Lord Byron , arrivato con il Grand Tour dell’aristocrazia europea a Bagni di Lucca, la cui firma è ancor visibile incisa su di una roccia.

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Le tracce degli antichi popoli liguri sono ancor testimoniate sia nei graffiti interni alle tante grotte sia nelle varie tombe e reperti. Non si ha  alcuna prova invece, ma soltanto teorie, del fatto che i romani vi avessero edificato un tempio dedicato a Esculapio, dio della medicina, della guarigione e dei serpenti ( un serpente verde appare anche  in Pinocchio per morire “spanciandosi” dalle risate ).

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Prato Fiorito detiene infatti in questo “campo” ( perdonate il gioco di parole )  il primato della maggior varietà di piante medicinali.

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Innumerevoli specie sono state qui censite e raccolte fino agli anni ‘60 figuriamoci nei tempi antichi laddove l’erboristeria unita a pratiche alchimistiche e forme di “stregoneria” popolare rappresentavano l’unica e “miracolosa” opportunità di guarigione.

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Il campo dei miracoli

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Un “campo dei miracoli”  magico e pagano,  dunque , quello di Prato Fiorito, delimitato ai quattro punti cardinali, forse protetto o più probabilmente arginato ( a contenere spaventevoli fuoriuscite ) da quattro chiese cristiane.

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Una serie di sentieri e strade percorreva il crinale di queste colline rendendole vive e abitate: un territorio di traffici e scambi tra i popoli.

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I commerci ebbero luogo fino all’epoca recente ( antecedente all’unità d’Italia ) quando, varie sorte di contrabbando, che eludevano regole e dazi dei vari signori locali, erano tacitamente tollerate.

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E le monete d’oro?

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I decenni che precedono la scrittura de “Le avventure di Pinocchio” furono caratterizzati da un pericoloso e famoso personaggio: il brigante Barbanera.

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Si narra che, per disperdere le proprie tracce, avesse applicato alle sue scarpe delle suole al contrario ( il tacco in avanti ).

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Il malfattore , assieme alla sua banda, si rese artefice di efferati omicidi e misfatti, molti dei quali ai danni dei parroci della zona, accumulando così una discreta fortuna.

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Alcune testimonianze lo descrivevano come un uomo talmente parsimonioso da cibarsi il minimo indispensabile che viveva sulle colline della Controneria mimetizzato tra gli abitanti.

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Questi, per paura, si guardavano logicamente assai bene dal denunziarlo o tradirlo poiché il brigante non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di ucciderli.

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La vita solitaria nei boschi del posto valse a Barbanera il soprannome di “Vecchio della montagna”.

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Emblematico il racconto che, a dei gendarmi i quali ( non riconoscendolo ) gli avevano domandato se lui avesse avvistato il bandito Barbanera, egli rispose calmamente: “ Quando io ero lì c’era anche lui, quando me ne andai non c’era più”.

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La banda del Vecchio fu artefice della rapina al postale del Duca di Modena che trasportava le paghe della sua guarnigione: almeno una cassa di monete d’oro.

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Per questo i “malanni” ( così Collodi apostrofa il Gatto e la Volpe ) furono processati e condannati a morte nella famosa ultima esecuzione capitale eseguita a Lucca.

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La cosa bizzarra fu che ad esser decapitati furono soltanto i complici mentre Barbanera fu ghigliottinato soltanto in effigie ( a monito per gli spettatori ) in quanto il brigante, condannato in contumacia, non fu mai catturato.

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Si costituì egli stesso ai gendarmi solo nel 1859, molti anni più tardi, in quanto ormai vecchio e non  più in condizione da poter vivere randagio sulle colline.

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Morì poco dopo in carcere ma il suo immenso tesoro non venne mai ritrovato.

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Che fosse stato sepolto nei pressi di Prato Fiorito? Forse rimane nascosto in una delle tante grotte? O magari è inabissato nelle acque schiumose e bianche del fiume Lima laddove divenendo profonde ( e nere ) nello stretto canyon di Cocciglia si aprono abissi che sembra non abbiano fine?

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Una curiosità.

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Osservando al satellite la calvizie del crinale di Prato Fiorito si ha l’impressione di vedere un serpente verde come quello che, spaventando Pinocchio,  tanto da farlo cadere conficcato a testa in giù nel fango, morì sopraffatto dalle troppe risate.

 

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Con Lucignolo di Lucignana nella “Bagni dei balocchi-mammalucchi: il cocchiere Ward

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“Fra gli amici di Pinocchio il prediletto si chiamava Romeo ma tutti lo avevano soprannominato Lucignolo poiché era secco e allampanato come il lucignolo nuovo di un lumino da notte.” ( capitolo XXX )

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Il recidivo e sfortunato Pinocchio, nuovamente salvato dall’amorevole fata, stavolta promette e giura di intraprendere gli studi e, di lì in avanti, “condursi sempre bene”.

Il premio di divenire un effettivo ragazzo perbene è allettante e deve esser festeggiato invitando i compagni per una bella colazione.

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È qui che il protagonista si imbatte in Romeo detto “Lucignolo” e si fa convincere a seguirlo nel Paese dei balocchi. Un viscido cocchiere chi li accompagna torna a riprendersi i ragazzi, che dopo cinque mesi si sono trasformati in asini, per venderli al mercato confidando in un discreto guadagno…

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Nell’intento di documentare e collegare i personaggi ed i luoghi del racconto di Carlo Collodi alla Val di Lima ed ai luoghi di Lucca,   il punto di partenza è stato proprio la verosimiglianza de “il Paese dei balocchi” con Bagni di Lucca.

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“Il Paese dei balocchi è il più bel paese di questo mondo: una vera cuccagna; saremo liberi di far chiasso da mattino a sera! Dove vuoi trovare un paese più SALUBRE ?”. Capitolo XXX

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Ogni anno la cittadina festeggia, nel suo importante e storico centro, una rassegna dal titolo ” Il Paese dei balocchi” poiché viene considerata cosa  tacita che il luogo di divertimenti e distrazioni descritto dal Lorenzini fosse proprio quel centro termale.

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È sicuro che, ai tempi di Lorenzini,  Bagni di Lucca con le sue bellissime terme, i locali e le tante sale da gioco, fosse l’autentica culla dell’aristocrazia mondiale.

Esistevano vari casinò e luoghi in cui intrattenersi suddivisi per nazionalità per incontrare differenti culture e ovviare alla diversità nelle lingue parlate dagli ospiti.

Vi erano bistrot per soli francesi, sale da gioco per inglesi, locali alla moda per clienti italiani.

La perla della Val di Lima, residenza estiva di molti artisti, poeti e intellettuali fu inserita nel Grand Tour d’Europa, il tracciato tra le città maggiormente di moda percorso dai giovani altolocati tra cui il poeta Byron e molti altri.

La cittadina era inoltre l’area di produzione delle famose statuine che ornavano i palazzi e le ville, i mammalucchi: riproduzioni artistiche, realizzate in cartapesta o gesso, di “balocchi “, soggetti religiosi e non,  conosciuti ed esportati in tutto il mondo dapprima dagli artigiani stessi che le realizzavano, i figurinai, poi dalle sempre più numerose aziende del comparto.

Un autentico “Paese dei balocchi” che pulsava di vita dove trascorrere, dalla primavera all’autunno per “cinque mesi”, oziose giornate a bighellonare tra feste, divertimenti e giochi d’azzardo.

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Il compagno che introduce Pinocchio a questa bella vita è “Romeo” ma viene da tutti chiamato “Lucignolo”.

Non lontano da Bagni di Lucca, sulla collina che si apre dopo la gola di Calavorno e prima dell’antico borgo di Ghivizzano, si trova un piccolo e vecchio paese, il cui nome è assai simile a quello del compagno di Pinocchio: Lucignana.

Vediamone la toponomastica.

Sarebbe quasi automatico tradurre “Luci-gnana” alla “terra di luce”, pensando a come Cicerone assegnava  l’aggettivo “lucensis” ( cioè “luminose” ) alle terre di Lucca.

In Toscana esiste tra l’altro anche un paese Lucignano,  che invece deve il proprio nome al console romano Lucio Lucinio che lo amministrò.

Nel caso di Lucignana la toponomastica ha radici un po’ più “terra-terra”.

Sembrerebbe infatti derivare da “Ilex”, il “quercus ilex” , comunemente detto “leccio”, è pianta assai diffusa su quella collina.

“Romeo” è poi aggettivo che indica la romanità, usato soprattutto parlando di strade.

I romani conquistarono le valli della Garfagnana intorno al II sec. A.C. spodestando i primitivi abitanti, i liguri-apuani e trasformando, nei secoli, l’ambiente circostante.

I borghi furono fortificati, dotati di mura e edifici militari e vennero costruite una serie di strade che servissero agli spostamenti degli eserciti o per i vari traffici e commerci.

La già presente via Clodia, situata sull’altro lato del Serchio, fu collegata con il versante opposto, con nuove viabilità che, traghettato il fiume, dirigessero sia verso la Valle di Fegana, sia verso la strategica base di Ghivizzano.

Il nome stesso del borgo, derivante dalla parola “Chiave” ovvero “Clave”, “clavidianum”, “Glavezzao” quindi “Ghivizzano”. lascia intendere quanto determinante fosse quella collina per il presidio della vallata. Con essa anche Barga, la Rocca di Cerreto e, logicamente, l’occhio di Lucca, ovvero il Monte Bargiglio.

Una nuova e più strutturata strada, costruita con la moderna tecnica dei romani, sarà certamente andata a servire anche il paese di Lucignana scansando la zona paludosa tra Calavorno e la parte più in basso di Ghivizzano.

C’è poi da dire un altro aspetto, assai singolare, ovvero che il nome “Romeo” ed il cognome “Romei” siano presenti e localmente diffusi tra gli abitanti di tutta la media-valle e della Garfagnana.

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Sarebbe così azzardato pensare che a ispirare il Collodi per il personaggio di Romeo-Lucignolo fosse stato proprio il paesello di Lucignana o un suo allampanato abitante?

Ogni paese di campagna ha degli autentici personaggi che non necessariamente corrispondono con lo scemo del villaggio o il più babbeo del posto.

È inoltre costume popolare affibbiarsi nomignoli tra paesani che talvolta corrispondano a luoghi o più comunemente ad animali…

Frequentando i vari bar e circoletti non sarà così difficile incontrarvi il Gatto, la Volpe ( e verosimilmente viaggeranno a coppia ) oppure il Grillo…e, perché no, anche un tipo segaligno di nome Romeo che tutti chiameranno “Lucignolo”.

Nei tempi di Collodi questo signore, un boscaiolo-scansafatiche, un gran cercatore di funghi, un pescatore di frodo, un bighellone fiero della propria ignoranza, potrebbe essere entrato in contatto con il nostro Carlo.

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Altro luogo assai  rilevante per questa nostra storia “pinocchiesca”  è il Romitorio di Sant’Ansano situato sulla collina proprio sopra Lucignana.

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Il romitorio, per definizione “rifugio di un eremita”, ospitò il suo religioso custode dal 1300 circa ma fu inizialmente soltanto una chiesa, di origine romanica, già documentata nel XI secolo.

Il complesso, sovrastante la vallata,

apparteneva ad una fortificazione chiamata “Rocca Pettorita” in seguito andata distrutta, che rientrava nella rete di punti di segnalazione difensiva situata sui vari “cucuzzoli” della zona.

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A Sant’Ansano si arriva in circa mezz’ora a piedi, facendo un bello strappo e superando vari punti assai panoramici, boschetti di quercus Ilex e leggendarie pietre con impronte demoniache.

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La mulattiera che si percorre è ripida e dura: un sentiero davvero adatto ad un mulo oppure ad un asino !

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Certamente, nei secoli scorsi, quando la montagna rappresentava una risorsa, questo stradino sarà stato parecchio transitato dagli abitanti del luogo per trasportare i materiali del bosco in paese sfruttando, come è logico, schiena e zampe di muli o altri animali da soma.

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E la chiesetta del romitorio?

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Arrivando al piccolo ma suggestivo edificio ci troveremo davanti un gran campanile “bi-orecchiuto”.

Proprio così; le pietre che ornano l’apice del campanile di Sant’Ansano somigliano davvero alle lunghe orecchie di un somaro, un somaro come quelli descritti dal Collodi.

“E il conduttore del carro?”

“Figuratevi, un omino untuoso come una palla di burro, con una voce carezzevole come quella di un gatto che si raccomanda al buon cuore del suo padrone”. (Capitolo XXXI )

Una figura piuttosto viscida e ambivalente quella dell’anonimo cocchiere detto anche “Omino di burro”.

Specifico “anonimo” poiché, a differenza degli altri personaggi principali, un nome per questo signore, non viene mai menzionato nel libro.

Senz’altro un uomo “da pochi soldi” pronto a vendere ignari bambini in cambio del vile ( e modesto ) denaro.

Quale uomo spregevole si prenderebbe gioco della buonafede dei ragazzi, deviandoli sulla cattiva strada, illudendoli, trasformandoli in asini,  per quindi venderli a pochi soldi?

Sicuramente un uomo crudele, un cinico e spietato affarista, un sadico ( tanto da morder l’orecchio di un ciuco) che non conosce scrupolo alcuno.

L’omino alla guida canticchiava:

“Tutti la notte dormon

mentr’io mai non dormo”

( Capitolo XXXI )

Il testo ermetico della canzone del conduttore del carro trainato dai 24 ciuchini ( notare che questi indossavano agli zoccoli non ferri ma stivaletti bianchi come alla moda nobiliare del tempo) svela l’animo cospiratore del burroso cocchiere che, invece di dormire, è ben sveglio come per tramare un qualcosa di losco…

Sarà per la somiglianza fisica, forse per l’attinenza del suo mestiere nel campo equino o, più probabilmente, per il gesto di vendere ciò che non gli appartenesse, ossia la vita delle persone, ma la figura del cocchiere di Pinocchio, ricorda parecchio un personaggio assai in vista nei tempi del Lorenzini: Tommaso Ward.

Il signor Tommaso, così lo chiamavano i lucchesi, “uomo piccolo di statura, audace e senza scrupoli, dallo sguardo vivace e intelligente”, iniziò la sua “gran cavalcata” come fantino, fu uomo di stalla del Principe del Liechtenstein e quindi impiegato nelle scuderie del palazzo Kinscki sotto Carlo Ludovico di Borbone infante di Spagna.

Conobbe, presso il Duca di Lucca, una carriera fulminea e inspiegabile che lo rese autore, se pur nell’ombra, di una sordida trama che costò un caro prezzo ai lucchesi: la perdita di un’autonomia che durava da ben sette secoli.

Andiamo per gradi.

Il Ward arrivò a Lucca nel 1833 come stalliere, in poco tempo divenne cameriere personale del Duca, poi appaltatore e quindi direttore delle scuderie oltre che della casa reale. Un uomo talmente scaltro e capace di ovviare ai molti pensieri del suo padrone, da conquistarsi in pochi anni il titolo di Ministro delle Finanze e Plenipotenziario di Carlo Ludovico.

Un primo ministro e forse più!

È nell’ottobre del 1847 che, grazie all’attiva partecipazione e negoziazione del signor Tommaso, si compie, per pochi soldi, la cessione del Ducato di Lucca al Granducato di Toscana.

Un atto imperdonabile che valse un giudizio storico assai negativo sul Ward che, nel frattempo, aveva ottenuto anche l’onorificenza col titolo di barone.

“Fantino, stalliere, sensale” furono gli appellativi dati dai lucchesi a Tommaso che mai da questi fu ben voluto malgrado si adoperasse organizzando feste, ricevimenti e danze ad esempio nel Caffè delle Mura.

Con la cessione del Ducato, Carlo Ludovico otteneva che il Granducato di Toscana pagasse i debiti che lui aveva contratto, percepiva un certo esborso ed una rendita e manteneva alcune proprietà a lui care: la villa reale, il casino dei glicini a Bagni di Lucca, la casina di caccia a Benabbio e le ville di Viareggio che conosciamo come “Borbone”.

Alla morte di Maria Luisa diverrà “Carlo II – Duca di Parma” per poi abdicare a favore del figlio Carlo IlI.

Il Ward continuerà a orbitare nella sfera di influenza della famiglia per un bel po’.

“Avete capito qual’era il mestiere di questo brutto mostriciattolo? Portava a vendere i ragazzi sulle fiere e sui mercati e così in pochi anni era diventato milionario”

C’è da notare, ora, oltre alle vicende lucchesi, quello che era il contesto storico italiano in cui visse Carlo, l’autore di Pinocchio.

Il Lorenzini interruppe gli studi di retorica e filosofia nel 1844 e negli anni successivi si interessò di critica per teatro, poesia e letteratura.

Nel 1848 lo troviamo volontario arruolato nel battaglione toscano a Curtatone e Montanara poi a scrivere di satira politica quindi a scrivere su arte, teatro e letteratura.

Lo pseudonimo “Collodi” arriverà nel 1856 firmando le sue prime più importanti pubblicazioni…

Si può quindi negare che egli possa aver avuto un giudizio storico su un episodio così importante come la vendita dell’indipendenza pluri-secolare di uno stato, quello lucchese?

“I ciuchini stavano male ma nessuno si lamentava dicendo -ohi!”

È così inverosimile che un personaggio “burroso” come Tommaso Ward possa aver ispirato al Collodi il personaggio  del cocchiere ?

 

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Il terribile Pesce-cane Botri

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Il ciuchino Pinocchio, azzoppatosi al circo e quindi inservibile come attrazione danzante, viene venduto per pochi spiccioli ad un ignaro Compratore che, resosi conto dell’incauto acquisto, decide di utilizzarne la pelle per ricavare un tamburo.

Prima della concia, però, l’animale deve essere ucciso, quindi l’uomo decide di legarlo e gettarlo nel mare per poi ripescarlo, bell’ e annegato da scuoiare.

Dei pesci, famelici come bambini, si cibano della sovrastruttura commestibile equina, compresa la coda  e, il povero Compratore tira su, incredulo e deluso, soltanto un burattino di legno. Dopo le varie presentazioni Pinocchio saluta gettandosi in acqua alla ricerca del proprio babbo.

Una capretta dal manto turchino, posta su un marmoreo scoglio in mezzo al mare, porge lo zampino al protagonista che però non raggiunge l’appiglio venendo prima inghiottito da un mostruoso pesce.

“Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura nel mare, vide, su uno scoglio che pareva di marmo, una bella caprettina…”  ( Capitolo XXXIV )

Ah, il mare!

Questa immensa e inviolata distesa così misteriosa, immutabile e romantica!

Un po’ meno poetico, però, è il “mare di automobili” incolonnate su un’autostrada o ammassate in un parcheggio…

Meno ispirato e pittoresco è il “mare di persone” che affolla una piazza o  uno stadio…

Sul “mare di verde”, il gran “mare di verde”, su quanto esso sia romantico, non nutro, perbacco, alcun dubbio…

Gli uomini si dividono tra amanti del mare e amanti della montagna, benché, un po’ tutti, amino, quantomeno “ufficialmente ”, la natura.

E la Natura si compone di aria, acqua, terra e anche fuoco, elementi imprescindibili che compongono il pianeta terrestre ed anche l’articolata scenografia del racconto di Pinocchio.

Il burattino volerà nell’Aire su un Piccione e nuoterà nell’Acqua;  ne sorbirà perfino una “catinellata “ solo per aver chiesto del pane a un Vecchietto.

Lo stesso Fuoco, sembrerà far bollire una pentola soltanto dipinta sul muro e sarà capace di bruciare rovinosamente i piedi di legno.

L’autentico palcoscenico del romanzo è costituito dalla Terra.

Onnipresente come una madre, Pinocchio fa da essa ritorno dopo ogni sfortunata avventura ed è alle volte una terra  benevola in cui sotterrare monete o una spiaggia su cui approdare e riprendersi.

Qualsiasi viaggiatore inesperto – o più incauto, pasticcione e distratto del nostro beniamino – approdando nelle valli lucchesi, non potrà non rimanere affascinato dal “mare di verde” che dipinge quei luoghi.

Rigogliosi e superbi boschi di gialli castagni ed acacie, bianchissime querce e larici, glauchi pini ed olivi , faggi aranciati e marroni…. si potrebbe elencarne a centinaia partendo dal blu degli allori e dei lecci per arrivare agli umili rovi.

Un gran verde è il risultato ottico di questa miracoloso miscuglio su tavolozza operato dall’acqua, che ricchissima scorre in queste generose vallate alimentandone la vita vegetale.

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Per non disperderci in questo mare, almeno per ora, torniamo alla nostra capretta…

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Cosa fa una capra su uno scoglio in mezzo al mare?

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Mi è capitato di vederne sulle Isole greche ed anche sulle isole Sardegna e Sicilia ma mai su di uno scoglio dove si arriva soltanto a nuoto o per barca…

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Che sia un indovinello o una barzelletta del Collodi ?!?!

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Assai più probabile e verosimile parrebbe che, un Pinocchio fluttuante nel mare verde dei boschi della Val di Lima,  intravedesse su uno spuntone di roccia, una bella capretta.

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La capra è animale di montagna, non di mare!

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Strettissima “parente” del capriolo, del cervo e del daino mica del Tonno o del Pesce-cane!

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Perfino in questi tempi di oggi ve ne sono di libere e selvatiche sulle montagne, figuriamoci nell’epoca di Pinocchio che, come abbiamo già detto, trascorreva “lieta e incontaminata” più di 150 anni fa. 

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Una volta chiarito che il mare non consistesse in un “mare di acqua”, ma in un verdissimo mare di  boschi e definito che in questi luoghi vi fosse uno preciso spuntone dove una bella caprettina belasse amorevolmente, non rimane che stabilire quale fosse esattamente il bosco in questione.

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Direi che,  tra i tanti,  il più misterioso, leggendario e pertinente considerando il resto del racconto, sia, neanche a dirlo, il bosco dell’Orrido di Botri.

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Capre ve ne sono moltissime, in quella zona si sono ambientate inselvatichendo. Molte sono anche colpevoli di smuovere qualche sasso che poi, cadendo, rischia di ferire i tanti visitatori e alpinisti che si recano questa gola più o meno equipaggiati, e….

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indovinate un po’ chi, per mestiere, faceva proprio il pastore di capre?

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Botri.

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” Intorno a Pinocchio, da ogni parte, c’era un gran buio, così nero e profondo, da sembrar dell’inchiostro” ( Capitolo XXXIV )

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Un passo indietro. Cos’è l’Orrido di Botri e perché si chiama così?

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“Orrido” viene detto di “luogo irto, ruvido, orribile e tale da incutere timore e ribrezzo”. Si usa anche a definire un “luogo selvaggio, angusto, spaventevole”. 

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In geografia indica una “gola scavata da un torrente nella roccia dove le acque precipitano con cascate”.

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In lucchesia, ma di questo non trovo traccia scritta, si nomina “orrido” un “luogo umido e buio dove il sole non arriva mai”.

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Sommando le tre definizioni si arriva a percepire soltanto in minima parte quanto realmente sia orripilante questa gola scavata dal rio Pelago nella roccia CALCAREA.

Le pareti sono così a strapiombo che sembrano toccarsi a inghiottir le persone.

Il percorso nel torrente, assai lungo, presenta acqua freddissima, rocce scivolose davvero insidiose; per di più, oltre a curarsi di dove mettere i piedi, ci si deve guardare anche il capo onde evitare qualche sasso in caduta.

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La parte più suggestiva di questa ampia riserva naturale è proprio l’entrata del canyon.

Una specie di enorme bocca vorace; una mostruosa “voragine infernale”  che si apre improvvisa, imponente, fredda, ventosa e umida come le fauci dentate di un gran pesce predatore.

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“Solamente delle grandi buffate di vento, che pareva tramontana, battevano sul viso di Pinocchio” ( Capitolo XXXIV )

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Specifico “infernale” per vari motivi.

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Primo, perché sembra che lo stesso Dante Alighieri, il ghibellino fuggiasco che  soggiornò nel suo esilio a Montefegatesi, calandosi nella gola di Botri, ne trasse ispirazione per il suo inferno; secondo,  perché infinite leggende, avvistamenti e tracce di diavoli vari, testimoniano che molti satanassi qui albergano, delinquono, spaventano o uccidono.

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Artiglio del Diavolo, Orto del Diavolo, Pietra del Diavolo sono solo alcune demoniache località presenti nell’orrido. A queste sommiamo le tante leggende che trattano di “streghi” , spiriti maligni e animali mitologici. Il più famoso, un certo “serpente Regolo” , sembra rapisse e inghiottisse i bambini – e forse anche i burattini – attirandoli nella sua tana a Botri.

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 Secondo le testimonianze di alcuni abitanti, poi, sarebbero stati osservati dei diavoli alati dotati di uncini ( malebranche dantesche ? ) balzare da un  lato all’altro dell’antro per ancorarsi alle rocce, e scomparire tra le grotte.

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Davvero un luogo spettrale, dunque.

“Figurati, il corpo del Pesce-cane, esclusa la coda, è lungo oltre un chilometro!” ( Capitolo XXXIV )

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Nell’immagine suggerita dal racconto di Pinocchio, l’antro in cui il burattino si trova, una volta inghiottito dal Pesce-cane quivi incontrando prima un Tonno-filosofo poi il padre, sembrerebbe essere unico, continuo, lungo e tortuoso a partire dai denti per arrivare allo stomaco.

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“Quando si nasce Tonni, c’è più dignità a morire sott’acqua che sott’olio… la mia è un’opinione e le opinioni, come dicono i Tonni-politici, vanno rispettate” ( Capitolo XXXIV )

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Cosa nascondono le fatalistiche parole del Tonno?

Forse un’esortazione alla rivolta?

È questo un plauso ai moti del 1848 ed alla “Primavera dei popoli “?

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Sappiamo che il Lorenzini si arruolò come volontario nel battaglione toscano che combattè a Curtatone e Montanara la prima guerra di indipendenza contro l’esercito austriaco.

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“Ecco venirgli incontro un’orribile testa di mostro con un’immensa bocca spalancata come una voragine.. era il gigantesco Pesce-cane, soprannominato l’Attila dei pesci per le sue stragi e la sua voracità…”  ( Capitolo XXXIV )

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Chiariamo quindi l’aspetto di Botri.

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Apprendiamo dalla leggenda che era un pastore di capre ed anche un uomo storpio, mostruoso e deforme dalle gigantesche fattezze, tanto da terrorizzare i suoi paesani che lo allontanarono.

Il pastore, assieme al suo gregge,  aveva ricavato il suo rifugio nelle caverne dell’orrido, presidiando così un luogo che, per le sue spaventevoli peculiarità, neppure ne aveva bisogno.

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Conosciamo la vicenda che lo vide morire cadendo accidentalmente nella gola del fiume mentre stava scacciando a sassate gli ingrati popolani che prima lo avevano esiliato ed ora, vittime di una carestia, si rivolgevano a lui chiedendo del cibo.

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Quali altre spaventevoli caratteristiche e storie potremmo assegnargli?

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Da sempre, attorno agli eremiti, si è materializzata un’aura di miti, miracoli, epopee e fandonie.

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Mi viene da pensare che, se effettivamente Botri fosse stato un gigante si sarà cibato di bambini come Attila il flagello di Dio che si fece cucinare due suoi figli rosolandoli nel miele.

Senz’ avrà apprezzato pranzare con animali vivi, carogne, radici o altre schifezze.

Il suo carattere sarà stato schivo, scontroso e violento come quello delle persone avvezze al viver da soli e covando il rancore. Vivendo nelle caverne del canyon poteva esser vestito come un primitivo di pelli, calzare scarpe arrangiate di cuoio naturale, portare capelli lunghi, tenere una folta barba sempre, logicamente, trascurando il suo aspetto e l’igiene personale.

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Sta di fatto che durante la sua esistenza, ovvero prima che cessasse violentemente, ma soprattutto dopo la morte, attorno ad esso si creò una specie di fama maligna che approderà, secoli dopo, alla leggenda che ne è stata tramandata dalla tradizione popolare.

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A lui si imputavano le tragiche morti per lapidazione, caduta di massi sugli uomini nella gola e quelle per precipitazione, dalle sponde e pareti dell’anfratto.

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Mi sorge un pensiero…non fateci caso, probabilmente un’altra bugia da Pinocchio:

non si usa dire “cristiani” intendendo in senso lato “gli uomini”?

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Non si definivano forse “pisciculi” i “primi cristiani” ?

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Niente da dire… Botri era un autentico Attila per le stragi e la voracità di pesci.

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Conclusioni

 

il Lustro
dario.barsotti@hotmail.it
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